“Gli ostacoli alla canonizzazione di Monsignor Romero? Sono stati numerosissimi. I più robusti, e forti, sono venuti dall’interno della Chiesa, anche dalla Curia romana. Tanto era forte l’opposizione a questa causa, che io stesso ho ricevuto minacce dai cardinali, perché la lasciassi stare”, ha affermato monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia accademia per la vita, gran cancelliere del Pontificio istituto Giovanni Paolo II e consigliere spirituale della Comunità di Sant’Egidio, durante un’intervista a Rai News. Lo ha fatto mostrando la croce pettorale di Monsignor Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador morto “in odio alla fede”, ucciso nel 1980 mentre sull’altare mentre stava celebrando la messa all’interno della cappella di un ospedale, per mano di un cecchino armato dalla dittatura militare del Salvador. Croce che monsignor Paglia durante l’intervista portava al collo, a pochi giorni dalla sua canonizzazione assieme a Paolo VI, che avverrà in Vaticano il prossimo 14 ottobre, nel bel mezzo del Sinodo dei vescovi sul tema dei giovani.
“L’ho avuta perché in un certo momento l’arcivescovo di San Salvador mi ha incaricato di essere il postulatore della causa di monsignor Romero. Una causa che tutti, ovviamente, ritenevano impossibile”, dice Paglia con tono di sicurezza. “Papa Francesco parlò del martirio di Romero anche dopo la morte. Il martirio anche da parte, disse il Papa, dei suoi confratelli, di vescovi, che anche a me, hanno continuato a parlare in maniera brutale contro Romero. Perché ritenevano Romero un pericolosissimo guerrigliero, un sostenitore di una sinistra politica, non comprendendo in realtà che proprio il silenzio della Chiesa su Romero ha portato, come dire, l’estrema sinistra a farne la sua bandiera”, ha sostenuto Paglia nel corso dell’intervista. “Per me è stata un’esperienza assolutamente unica, vedere la sete di conoscenza di Romero, o meglio il legarsi di tanti, che vedevano il cambiamento nella storia, alla figura di Romero. Senza la violenza, ma con un reale cambiamento. Con la forza della Parola, del Vangelo, di una giustizia che aiutasse anzitutto i più poveri”.
La decisione finale a favore della beatificazione di Romero è stata presa da Papa Francesco il 6 marzo scorso, riconoscendo il miracolo in questi casi imprescindibile per la canonizzazione. “Diversi mesi fa ho avuto una segnalazione: si tratta di una guarigione di una donna incinta che secondo un primo esame risulta inspiegabile”, diceva lo stesso postulatore Paglia a Radio In Blu, la radio promossa dalla Cei, pochi giorni prima della pronuncia finale del pontefice. Intervista in cui il prelato si augurava per l’appunto il riconoscimento del miracolo, in quanto “coincidenza straordinaria, considerato che quest’anno ricorrono i 100 anni della nascita di Romero”, “alla vigilia della sua canonizzazione”. L’evento ha riguardato una donna alla sua settima gravidanza, che “secondo i dati clinici sarebbe dovuta morire insieme al bambino”, ma che “inspiegabilmente si è ripresa”, e che “da come è riuscita a superare quel momento tragico qualche medico, che io ho sentito”, ha spiegato Paglia, “ha ritenuto la guarigione inspiegabile”.
Nello stesso tempo infatti, spiegò il prelato, “alcune persone avevano pregato proprio monsignor Romero per la guarigione della donna”. Così il Tribunale diocesano dell’arcidiocesi del Salvador ha confermato l’ipotesi, e il Papa vi ha messo il sigillo finale. “Un pastore buono, pieno di amore di Dio e vicino ai suoi fratelli che, vivendo il dinamismo delle beatitudini, giunse fino al dono della sua stessa vita, in modo violento, mentre celebrava l’Eucaristia, Sacrificio dell’amore supremo, suggellando con il suo stesso sangue il Vangelo che annunciava”, lo ha descritto Bergoglio prima di annunciarne la canonizzazione nel Concistoro pubblico dello scorso maggio, descrivendone un martirio che “non avvenne solo al momento della sua morte”, ma che “fu un martirio-testimonianza, sofferenza anteriore, persecuzione anteriore, fino alla sua morte”. “Ma anche posteriore, perché una volta morto fu diffamato, calunniato, infangato, ossia il suo martirio continuò persino da parte dei suoi fratelli nel sacerdozio e nell’episcopato”, ha aggiunto Francesco. “E’ bello vederlo anche così: come un uomo che continua a essere martire”.
Prima del riconoscimento del martirio di Romero da parte di Papa Francesco fu Giovanni Paolo II che citò l’arcivescovo salvadoregno, durante il giubileo del 2000, parlando di un “servizio sacerdotale” che “ha avuto il sigillo immolando la sua vita, mentre offriva la vittima eucaristica”. Fino all’intervento di Benedetto XVI nel 2012, che portò allo sblocco della causa che sembrava essersi fermata per lunghi anni. Romero, un sacerdote dedito a quella Chiesa “povera e per i poveri” la cui eco giunge fino al pontificato di Bergoglio, poco prima del suo assassinio aveva lanciato un appello alle forze armate affinché si rifiutassero di eseguire gli ordini imposti dal regime, di repressione delle proteste, durante gli anni della sanguinosa guerra civile in El Salvador. Romero ripetette la stessa denuncia nell’omelia recitata poco prima della morte, avvenuta per mano di un sicario del leader del partito nazionalista conservatore che gli sparò un colpo alla giugulare, proprio nel momento in cui stava elevando l’ostia di fronte ai fedeli. Un fuoco che venne poi riacceso anche durante il suo funerale, contro i partecipanti, compiendone un tragico massacro.
“Io vorrei fare un appello particolare agli uomini dell’Esercito e in concreto alla base della Guardia Nazionale, della Polizia, delle caserme: Fratelli, appartenete al nostro stesso popolo, uccidete i vostri stessi fratelli contadini; ma rispetto a un ordine di uccidere dato da un uomo deve prevalere la legge di Dio che dice Non uccidere. Nessun soldato è tenuto ad obbedire ad un ordine contrario alla Legge di Dio. Vi supplico, vi chiedo, vi ordino in nome di Dio: Cessi la repressione!”, erano le parole pronunciate da monsignor Romero, nel suo appello al governo salvadoregno. Le critiche avanzate a Romero furono centrate sull’accusa di ricoprire un ruolo, più che pastorale, principalmente di oppositore del regime salvadoregno, e delle politiche filo-americane portate avanti, che ricordavano l’eccessiva politicizzazione di cui veniva accusata di essere impregnata la cosiddetta Teologia della liberazione, a cui Romero tuttavia opponeva una sua predicazione, poi rinominata di “salvezza integrale”.