Il 16 ottobre 1943 alle 05.15 del mattino le SS invasero le strade di Portico d’Ottavia e rastrellarono prima 1022 che poi diventarono 1024 persone: due donne partorirono nei due giorni tra il 16 e il 18 ottobre. Alle 14.05 del 18 ottobre, diciotto vagoni partono dalla stazione Tiburtina. Dopo sei giorni arriveranno al campo di concentramento di Auschwitz. Solo quindici uomini e una donna, Settimia Spizzichino, ritorneranno a casa dalla Polonia. Nessuno dei bambini è mai tornato.
La Comunità Ebraica di Roma, nonostante fosse parte integrante della storia e dell’identità di questa città, in cui era presente da più di duemila anni, per i nazisti era solo uno dei tanti tasselli di cui era composto il popolo che avevano intenzione di sterminare.
Perché continuare ad interrogarsi su quali siano i motivi migliori per continuare a ricordare questa storia, la storia? Abbiamo bisogno che ci venga spiegata ogni giorno la ragione della memoria? La memoria ha bisogno di una ragione?
La storia del 16 ottobre 1943 è la nostra storia. Riguarda la Comunità Ebraica di Roma nell’identità che più le appartiene ma riguarda la città nella sua interezza. Quella del 16 ottobre è una ferita che segna e segnerà la Città per sempre.
Esistono due diversi tipi di memoria di quel “sabato nero”. Una memoria che riguarda noi, ebrei romani, e una memoria che deve riguardare la collettività. Dobbiamo sapere che la Shoà nella sua unicità rappresenta il paradigma del male. Un male che non è scomparso, ma che la storia ci insegna che può manifestarsi di nuovo, e che va prevenuto. La nostra memoria serve a prevenire che il male possa tornare ancora. È una nostra responsabilità, in quanto testimoni diretti dell’orrore; è una responsabilità collettiva di tutti in quanto spettatori, alcuni silenti altri eroi, di quello stesso orrore. Non ci sottraiamo a questo dovere morale. Lo dobbiamo a chi ha visto e vissuto quella tragedia.