Sebbene l’uso di internet sia oramai ampiamente diffuso, i benefici che in Italia da tale uso si sarebbero dovuti produrre sono ancora minimi ed anzi molti fenomeni negativi stanno emergendo con forza, dal cyberbullismo alle fake news, dall’intolleranza all’hating in rete. Internet, la “rete delle reti”, che avrebbe dovuto assicurare la partecipazione globale in totale libertà, superando i limiti di spazio e di tempo, ovvero consentendo a chiunque di essere connesso da qualsiasi parte della Terra e in qualsiasi momento, sta diventando sempre di più un crogiuolo di diseducazione, cattiveria e odio, un luogo dove trovano ampio spazio misoginia e omofobia, razzismo e xenofobia.
Attraverso la rete lo sviluppo sociale sperato, sia pur presente, è estremamente marginale mentre quello economico è fortemente polarizzato su poche aziende che proprio attraverso la loro presenza predominante in rete frenano la crescita delle imprese più piccole. Le ragioni di questa pericolosa deriva sono molteplici, ma certamente indicazioni importanti sono fornite dai dati di due recenti report europei: il Digital Economy and Society Index 2018 (DESI 2018), l’indicatore della Commissione Europea che misura il livello di attuazione dell’Agenda Digitale di tutti gli Stati membri, e l’European Innovation Scoreboard 2018 (EIS 2018) che fornisce un’analisi comparativa delle prestazioni dei paesi EU in termini di innovazione. Sebbene si basino su indicatori differenti le due ricerche riportano risultati complessivamente coerenti ed evidenziano entrambe come l’Italia sia un paese tra i più arretrati in Europa in termini di digitale, che è anche riuscito a peggiorare rispetto allo scorso anno in termini di integrazione delle tecnologie digitali, connettività e, soprattutto di capitale umano, per i quali l’Italia risultava già nelle scorse analisi agli ultimi posti a livello europeo.
Nella situazione italiana allora, Internet da potenziale strumento di sviluppo e crescita, diventa strumento di comunicazione di fatto inutile per una società che non riesce a trarre valore dalle cose e che le utilizza, coerentemente con le capacità e le limitate prospettive di tanta parte della collettività, in modo superficiale se non dannoso. Non stupisce allora se ragazzi e meno giovani si immortalano continuamente in selfie, facendo emergere questa smania – una vera e propria moderna fenomenologia – in cui un po’ tutti siamo inutilmente connessi ai social, come dimostrato dalle statistiche internazionali, ad esempio il Survey del Global Webindex che evidenzia le seguenti percentuali nell’uso dei social da parte di cittadini italiani compresi tra i 16 ed i 64 anni: Youtube, 57%; Facebook, 55%; Whatsapp, 48%; Messenger, 33%; Instagram, 28%; Twitter, 25%; Google+, 25%; Linkedin, 19%; Skype, 19%.
In questa società “inutilmente connessa” risulta assai elevato il rischio, anche per coloro che hanno responsabilità politiche e di governo, di utilizzare impropriamente o pericolosamente la Rete e in generale le moderne tecnologie alle quali ci si riferisce erroneamente come strumenti “neutri” e quindi in grado di garantire correttezza ed equità. La possibilità di usufruire della rete – anche in maniera gratuita – non assicura affatto, di per sé, la “cittadinanza attiva” tanto auspicata o la possibilità di realizzare sviluppo e progresso sociale ed economico, così come è ingannevole lasciar credere che nuovi strumenti scientifici e tecnologici sempre più spesso inseriti nel dibattito politico possano, da soli, assicurare il cambiamento necessario a superare le storiche criticità nazionali. Termini come Artificial Intelligence, Blockchain, Data Analytics, Biometrics e tante altre “parole chiave” usate nel generico contesto della politica non hanno spesso alcun significato concreto se non quello immaginifico di accrescere erronee aspettative per soluzioni facili a questioni complesse. La scienza e la tecnologia potranno certamente rendere disponibili strumenti efficaci a una grande quantità di problemi, ma solo se utilizzate in maniera propria, con serietà e rispetto. Nessun algoritmo di Artificial Intelligence potrà mai fornire risultati utili se non utilizzato adeguatamente con dati aggiornati, coerenti e completi, che purtroppo non sono sempre disponibili nelle amministrazioni centrali e locali. La difficoltà della PA di mettere a disposizione gli Open Data – che avevano alimentato molte interessanti possibilità applicative – è una dimostrazione di un Paese dove manca ancora la cultura del dato e un’organizzazione adeguata ad una sua corretta gestione e valorizzazione. L’applicazione delle tecnologie disruptive della Società dell’Informazione è spesso tutt’altro che semplice e il rischio di un utilizzo superficiale è quello di screditarne le potenzialità e l’autorevolezza delle comunità scientifiche che su di esse lavorano da anni.