Sta facendo discutere la proposta lanciata da Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, di reintrodurre la festività nazionale del 4 novembre, l’anniversario della vittoria della I Guerra Mondiale, in quanto sarebbe una data molto più unificante di altre che oggi sono feste nazionali, come il 25 aprile e il 2 giugno, festa della Liberazione e festa della Repubblica Italiana, che sarebbero invece divisive. Nel video su Facebook che lancia l’iniziativa, con l’hashtag #nonpassalostraniero, la presidente di FDI ricorda che “100 anni fa vincemmo la Prima Guerra Mondiale. I nostri Eroi ci fecero liberi e sovrani. 100 anni dopo ricordiamo il loro sacrificio combattendo la stessa battaglia contro i nuovi invasori”. È una legittima propaganda politica, avverso i fenomeni delle migrazioni e della globalizzazione dei mercati, con cui si può essere o meno d’accordo. Ed è vero: la celebrazione della vittoria della Grande Guerra era festa nazionale sino al 1977, quando venne abolita, un po’ per risparmiare, dato il periodo di austerity (anche la parata del 2 giugno era stata cancellata nello stesso anno, per essere poi ripristinata da Ciampi nel 2001), un po’, per chi ricorda quegli anni, perché vittima di una certa cultura antinazionale, quando anche suonare l’inno appariva fuori luogo e sospetto di simpatie autoritarie. Altri tempi. Getto subito la maschera, tuttavia: sono un obiettore di coscienza, e provo una qualche difficoltà nello sperticarmi nel celebrare le morti di milioni di giovani Italiani, mandati a morte come tante pedine in un gioco più grande di loro. Un massacro che mise in ginocchio l’Italia, dando forza alla narrazione della cosiddetta vittoria mutilata sulla mancata cessione di Fiume, e gettò le basi per la creazione delle condizioni che permisero l’avvento del Fascismo. Capiamoci, tuttavia, sul cosa si intenda celebrare. Benedetto XV definì la Grande Guerra come una “inutile strage”, in cui Italiani di ogni parte della penisola, civili e militari, morirono nelle trincee, feriti a morte, asfissiati o, più semplicemente, di stenti. Più che una celebrazione, allora, il ricordo: il ricordo di chi ha perso la vita per un ideale o, spesso, solo perché costretto. Ed un monito: un monito contro la follia della guerra.
Quel che non mi convince affatto, tuttavia, è il paragone per contrasto con il 25 aprile, anniversario della liberazione d’Italia dal nazifascismo, o col 2 giugno, perché feste divisive, come ha sostenuto l’on. Francesco Lollobrigida, presidente del gruppo FDI alla Camera, nella conferenza stampa di presentazione dell’iniziativa assieme a Meloni. Premesso che le celebrazioni di cui si parla non necessariamente si escludono le une con le altre, e che non mi associo alla elezione di una festa nazionale su tutte, suona davvero bizzarra la denuncia che la Liberazione (o la festa della Repubblica!) divida. Ma divide chi da chi? Diciamolo chiaramente: ove si intendesse equiparare chi instaurò una dittatura e fiancheggiò i nazisti, persino aiutandoli a rastrellare gli ebrei Italiani, a chi prese le armi per cacciare i nazifascisti, non ci siamo. Non ci siamo storicamente, politicamente, e civilmente. Chi ha sacrificato la propria vita perché in Italia tornasse e si consolidasse una democrazia, che ha retto momenti drammatici negli ultimi settanta anni e più, va ricordato. Sempre. Anche a fronte dei tanti che cambiarono casacca in una notte. E la difesa dei principi democratici dovrebbe essere patrimonio comune di tutti i membri di una comunità nazionale, indipendentemente dalla loro collocazione lungo l’arco costituzionale, perché parte di un nucleo indefettibile di valori di ciascuno, senza i quali muta il regime dello Stato. Se si ritiene che l’Italia stia oggi cedendo pezzi della propria sovranità rispetto ad altre strutture sovranazionali come l’Unione europea o le Nazioni Unite, e lo si considera un fenomeno dannoso, è perfettamente legittimo portare avanti una battaglia politica in tal senso. È doveroso, persino. Attenzione, però: la discussione su quali forme debba (o possa) assumere il quadro dei rapporti regionali ed internazionali fra Stati nel XXI° secolo nulla ha a che fare con la netta demarcazione di chi allora è stato nel giusto e chi no. Ai morti, tutti i morti, l’umana simpatia. Senza, tuttavia, mai dimenticare la differenza fra chi ha combattuto per la democrazia, l’eguaglianza e la libertà e chi voleva la soppressione di tutto ciò. Nessuno spazio per polemiche ideologiche, qui: regna la Costituzione. A meno di voler ritenere che avesse ragione chi oggi avrebbe impedito proprio questo dibattito. Allora sì che ci si dividerebbe. E meno male.