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Isis non è stato sconfitto. La presenza invisibile del califfato in Iraq e Siria

Di Giovanni Parigi
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Nelle scorse settimane in Siria, nella media valle dell’Eufrate vicino al confine iracheno, il Da‘esh aveva riguadagnato terreno. Pochi chilometri, ma una vittoria simbolica, visto che oggi il califfato controlla meno dell’uno percento del territorio che dominava al suo apice. Peraltro si è trattato di un’avanzata effettuata sfruttando il maltempo che impediva gli attacchi aerei della Coalizione, nonchè approfittando degli attacchi turchi su Manbij, che avevano richiamato a nord le milizie curde delle Forze Democratiche Siriane.

Ora però la clemenza del tempo e, molto probabilmente, un accordo tra americani e turchi lasciano presagire la ripresa dell’offensiva diretta a riconquistare l’ultimo baluardo jihadista, ovvero Hajin e alcuni anonimi villaggi al confine con l’Iraq, lungo l’Eufrate.

Dunque, da ovest, il califfato è pressato dalle Forze Democratiche Siriane, per lo più milizie curde appoggiate dagli Stati Uniti, che come in una battuta di caccia al cinghiale avanzano seguendo il corso del fiume e spingendo i jihadisti verso est; senonché, lungo il confine i jihadisti trovano le forze irachene che cercano di impedirne l’infiltrazione nel paese. Dunque, di fatto il califfato è stato sconfitto militarmente, mentre il suo califfo è morto o nascosto.

Però, a frenare l’ottimismo e a spingerci verso la cautela, più che la geopolitica interviene la fisica, col postulato fondamentale di Lavoisier: “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. Infatti il Da‘esh non è scomparso, ma sotto l’insostenibile pressione dei suoi avversari, è “evaporato” trasformandosi da presenza visibile a nemico invisibile. In altri termini, la disarticolazione del califfato a seguito della perdita della capitale Raqqa, di Mosul e dei centri urbani iracheni, ha causato una dispersione del movimento; questo significa che è diventato una “insurgency” che anche se non ha più il controllo del territorio, è comunque presente e attiva. Ed è presente soprattutto nella sua area elettiva, ovvero nella fascia che partendo da Deir az Zor nella Siria orientale, passa per le province sunnite irachene di Anbar, Ninive e Salahuddin, per arrivare a Diyala, ovvero alle porte di Baghdad. In queste aree la presenza di comunità sunnite aiuta il reclutamento e lo stato di clandestinità; inoltre, la situazione in aree a popolazione mista curdo-araba come Kirkuk, o contese come Sinjar, Makhmour e Khanakin, stanti le irrisolte tensioni tra Baghdad ed Erbil, facilita il Da‘esh; ciò in quanto si tratta di aree “grigie”, dove manca il controllo ed il coordinamento tra le forze di sicurezza e di intelligence curde e federali.

Dunque, per il Da‘esh la fase attuale è una sorta di ritorno alle origini, sia come areale che come modalità d’azione. Il movimento si è annidato, diffuso con piccole cellule disperse tra le aree desertiche della Jazira, ovvero a cavallo di Siria e Iraq, nelle aree agricole lungo l’Eufrate o nelle montagne di Hamrin, vicino a Kirkuk. E’ un Da‘esh annidato nelle aree marginali, ma da dove le sue cellule mantengono una costante pressione su centri urbani con attentati, attacchi mordi e fuggi, omicidi mirati di capi tribali, sindaci e funzionari governativi, oltre che sabotaggi di linee elettriche e oleodotti. La sua strategia è quella di una guerra di attrito, effettuata intimidendo e disorientando la popolazione, ma soprattutto disgregando le istituzioni civili e militari in modo da potersi poi sostituire alle stesse. E’ un Da‘esh che sopravvive grazie a traffici criminali, droga, estorsioni e rapimenti, che si muove di notte e che evita le strade principali, spesso le uniche dove si trovano controlli governativi.

Sarebbe però un errore grave considerare questo Da‘esh “banditesco e agricolo” come un fenomeno ormai legato alla dimensione locale. Il movimento mantiene tutta la sua potenzialità materiale e ideologica. Quanto alla consistenza numerica, lo scorso agosto un report ONU stimava ancora operativi tra i 20.000 e i 30.000 miliziani del califfato sparsi tra Siria e Iraq. Quanto alla sua virulenza ideologica, il califfato è “in sistema” con un fluido network di movimenti affini in Afghanistan, Somalia, Libia e Yemen. Dunque il califfato, per quanto disperso e pesantemente colpito, continua a costituire una minaccia sia a livello locale siro-iracheno, che a livello mondiale, quale fonte di ispirazione per movimenti omologhi nonché cornice di identificazione per terroristi isolati.

Tuttavia, a destare la nostra attenzione, non dev’essere la pretesa forza intrinseca del movimento jihadista. Infatti, la sua vera forza consiste nello sfruttare la debolezza dei suoi nemici; e di debolezze da sfruttare, ce ne sono tante.

Innanzitutto, le forze siriane e irachene sono fragili e divise. Le sole forze irachene sono formate da esercito, milizie tribali, forze speciali antiterrorismo e forze di mobilitazione popolare filo-iraniane; di contro in Siria, Assad ha ben poche forze leali da dispiegare per controllare le aree sunnite. Di fondo, l’efficacia delle forze siro-irachene dipende dall’aiuto dei rispettivi alleati e, soprattutto, dal loro appoggio aereo, sul terreno un vero incubo per i jihadisti.

Secondariamente, tanto in Siria che in Iraq, nelle aree riconquistate al Da‘esh i rispettivi governi non riescono a fornire una effettiva sicurezza e stabilizzazione, la governance è limitata e la ricostruzione materiale e istituzionale langue. In altri termini, lo stato latita, spesso è percepito come alieno e oppressivo ed è delegittimato da divisioni settarie, prostrazione economica e malessere sociale. Infine, a complicare tutto, c’è la rivalità tra Usa e Iran, le ambizioni russe e curde, le ambiguità turche e le influenze saudite, che tutte insieme soffiano sul fuoco delle tensioni etnico-settarie, autentico crogiolo di nuove generazioni di jihadisti.
Concludendo, per eliminare del tutto il califfato ci vorranno anni e, oltre alla guerra, serviranno buongoverno e ricostruzione, merce assai rara in Medio Oriente.

Intanto il Da‘esh tirerà a campare, aspettando tempi migliori. Dopotutto, come diceva il segretario di stato americano Henry Kissinger, “alla guerriglia basta non perdere per vincere, all’Occidente è sufficiente non vincere per perdere”. Parlava del Vietnam negli anni ’70, ma vale anche per Siria e Iraq di oggi.

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