Nel prossimo futuro del “governo del cambiamento” appare un “vecchio” strumento della politica fiscale e previdenziale nazionale: il contributo di solidarietà. Destinato però, a quanto pare, a colpire esclusivamente una categoria di percettori di reddito, cioè i pensionati. E, fra questi, solo quelli che percepiscono un assegno mensile medio-alto, quantificabile – secondo la vulgata nazionale – in 90mila euro lordi l’anno. Tramontata così la pasticciata proposta di legge D’Uva-Molinari sul presunto ricalcolo contributivo delle pensioni in essere e future, ecco ricomparire dal cilindro dei nostri governanti, l’ennesimo contributo, in realtà affatto solidaristico, perché coercitivo ed arbitrario.
Ma non conoscendo ancora l’imponibile da sottoporre a questo contributo, né la sua percentuale di applicazione e neanche la durata del prelievo o la destinazione dei fondi che verranno raccolti, è preferibile concentrarsi sulla genesi del provvedimento. Che, purtroppo, è la stessa della proposta di legge summenzionata, naufragata sotto un diluvio di pareri tecnici negativi e di audizioni parlamentari fortemente critiche, ma carica di un “veleno” ideologico che ha creato – e potrebbe ancora creare – danni irreparabili al tessuto sociale del Paese.
Mi riferisco alla scellerata volontà politica di aver definito come “d’oro” le pensioni oggetto dei prelievi e, nello stesso tempo, di aver identificato come dei privilegiati i loro percettori. Fra i quali rientrano i ceti produttivi, altamente scolarizzati, qualificati, preparati, competenti. Insomma, la classe dirigente nazionale – manager, dirigenti di aziende private e pubbliche, della sanità, della scuola, della pubblica amministrazione, della magistratura, della diplomazia, delle forze armate, ecc. – che costituiscono la “spina dorsale” del Paese.
Evidentemente non è stato sufficiente argomentare che, chi oggi è titolare di pensioni di importo medio-alto, negli anni ha versato contributi altissimi e ha subito una imposizione fiscale pesante nel corso di tutta la sua vita lavorativa: i dirigenti, infatti, rientrano in quel 12% di contribuenti che versano il 54% dell’Irpef complessiva, garantendo quel gettito indispensabile al mantenimento del nostro modello di welfare. Un modello che tutela anche chi non ha versato tasse e/o contributi o ne ha versati pochi. E, ancora, che a fronte di un’evasione fiscale valutata in 130 miliardi, con un mancato gettito di oltre 30 miliardi di euro annui, voler inasprire ulteriormente il prelievo sulle stesse categorie di contribuenti, vorrebbe dire affermare il fallimento dello Stato sia come ‘apparato amministrativo’, sia come sistema democratico di redistribuzione delle risorse.
È fin troppo chiaro che tutte le soluzioni prospettate nel corso del tempo (il taglio sopra i 5.000 euro, il taglio in base all’anzianità anagrafica, l’ennesimo contributo di solidarietà e l’ennesimo blocco delle rivalutazioni) mirano esclusivamente a colpire – in qualsiasi modo – i pensionati con reddito sopra la media, seppure con risultati economici modestissimi, consistenti in poche centinaia di milioni di euro, a cui va sottratto peraltro il relativo mancato gettito dell’Irpef. I pensionati che si sono ritirati dal lavoro 10 anni fa, nel pieno rispetto delle leggi, si chiedono peraltro perché lo Stato voglia sottrarre loro oggi 200 o 300 milioni, mentre, contemporaneamente, spende oltre 15 miliardi per mandare in pensione le persone a 62 anni e dare redditi e pensioni a chi non ha mai versato contributi.
In questa operazione non c’è niente di coerente, mentre è fin troppo chiaro solo un intento puramente demagogico. Inoltre, in un momento in cui si tenta di stimolare domanda e Pil, non si è forse valutato a sufficienza l’effetto di contrazione dei consumi e di aumento del risparmio difensivo che di sicuro deriverebbe dalla caduta della certezza del diritto e degli affidamenti dello Stato, non solo per i pensionati, ma per tutti i percettori di reddito.
Ma se è abbastanza semplice smantellare le basi “tecniche” dei provvedimenti in questione, molto più complicato è riparare ai danni causati da quella specie di campagna di rancore e odio sociale innescatasi sulle pensioni medio-alte. Mi riferisco agli attacchi e alle considerazioni di cui i dirigenti sono stati fatti oggetto e che consideriamo offensivi e lesivi della nostra immagine professionale e sociale. Attacchi inaccettabili non solo perché sbagliati nella sostanza, ma perché costituiscono un errore strategico gravissimo da parte di chi ha un ruolo istituzionale: delegittimando la dirigenza di un paese si delegittimano quelle figure e quei ruoli alto-professionali che nella incertezza generata dalle grandi trasformazioni in atto, hanno più di altri la responsabilità di guidare imprese e pubbliche amministrazioni verso i necessari cambiamenti economici e sociali.
A nostro parere, la politica dovrebbe guardare con occhi diversi a queste categorie, e rivolgere loro una maggior attenzione e, soprattutto, starle ad ascoltare, almeno qualche volta. Forse otterrebbe suggerimenti e consigli pratici su come risolvere i tanti problemi che trasciniamo da troppi anni.