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Ecco che cosa non funziona nel mercato del lavoro italiano secondo il Cnel

Il 6 dicembre al Cnel è stato presentato il Rapporto sul mercato del lavoro 2018 che raccoglie contributi diversi di esperti del Cnel, di ricercatori dell’Anpal e dell’Inapp. Rapporto che quest’anno tocca i principali aspetti della regolazione del lavoro e delle relazioni contrattuali: l’evoluzione dei lavori e delle condizioni dei lavoratori, le politiche attive e le politiche passive, la contrattazione collettiva e i suoi contenuti. Una parte del Rapporto in particolare è riferito alla situazione occupazionale: il tema è delicatissimo, molto esposto a tensioni sociali e influenzato da interessi contrastanti.

Nonostante la radicalità dei cambiamenti introdotti nel mondo del lavoro e dell’impresa dalla globalizzazione e dalle nuove tecnologie, specie digitali, l’impatto di questi fattori non è predeterminato, ma può essere influenzato da scelte di istituzioni e di attori pubblici e privati consapevoli e responsabili. La pur timidissima ripresa dell’occupazione è un fatto positivo in un periodo di debole crescita, ma non si è tradotta in un aumento del volume del lavoro rispetto al periodo pre-crisi, perché tra le persone occupate sono molte di più quelle che lavorano a orario ridotto che quelle impiegate a tempo pieno (la quota delle seconde cala del 8%). È cresciuta anche la quota del part-time involontario, soprattutto per le donne mentre le differenze di genere, il carattere involontario dei nuovi part-time e la loro distribuzione diversificata sul territorio con la penalizzazione del Sud, mostrano che non siamo di fronte a una felice redistribuzione del lavoro fra le famiglie, ma ad una minore intensità del lavoro e a una disoccupazione diseguale. Disoccupazione che oltretutto ora manifesta nuovi segnali di aumento.

E per di più tali fenomeni critici, pur presenti anche in altri Paesi, sono particolarmente accentuati in Italia. Una criticità ulteriore del quadro è segnalata dalla crescente polarizzazione dell’occupazione, cioè dal divario fra crescita delle fasce più qualificate di lavori e di quelle meno qualificate, a scapito dei lavori routinari. Anche questa è una tendenza riscontrabile in molti Paesi, ma come ampiamente testimoniato dall’Ocse nel caso italiano diversamente dagli altri Paesi (esclusa la Grecia) la polarizzazione è asimmetrica al contrario, cioè la fascia più qualificata dell’occupazione cresce meno di quella poco qualificata. E il trend non si è invertito dopo la fine della crisi nel corso della cosiddetta ripresa bloccata del 2011. La conseguenza è una preoccupante dequalificazione della struttura occupazionale e una accresciuta divaricazione nelle dinamiche della occupazione per generi e per provenienza dei lavoratori.

Le criticità rilevate dal Rapporto – bassa intensità e scarsa qualificazione dell’occupazione – sono difficili da affrontare perché sono interne alla struttura dell’economia italiana che ormai da parecchi anni non vede crescere quei settori e quelle attività ad elevata produttività e alto valore aggiunto che soli sarebbero in grado di offrire posti di lavoro molto qualificati e a tempo pieno. Questo l’inevitabile risultato di venti anni in cui, secondo le statistiche Ocse, la percentuale di investimenti in ricerca e sviluppo sul prodotto interno lordo supera di poco la metà della media dei paesi occidentali; è significativo a tale proposito che la debolezza della nostra occupazione sia dovuta in larga misura alla carenza di occupati a tempo pieno e indeterminato soprattutto con qualificazione medio alta. Per questo il ricorso a incentivi diretti a sostenere l’occupazione a tempo pieno e indeterminato è di per sé insufficiente. Servono invece interventi strutturali, a cominciare da maggiori investimenti pubblici e privati soprattutto nei settori innovativi dell’economia e per altro verso nella formazione di qualità dei lavoratori e anche degli imprenditori: è parere di chi scrive che comunque questa scelta del governo di finanziare irresponsabilmente il reddito di cittadinanza è un incentivo a non cercare lavoro soprattutto al Sud ed eventualmente incentivare il lavoro nero.



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