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Fenomenologia della gig economy

L’outlook della gig economy ha fatto un viaggio ormai decennale sulle montagne russe. Pensate all’entusiasmo liberatore del 2008. Ve lo ricordate? Quando il mondo aveva messo in scena la tragedia della crisi finanziaria, la sharing economy interpretava la parte dell’eroe buono. Era la narrazione della società che si auto-organizzava e trovava il modo di farcela malgrado tutto, era la rivincita dell’economia reale, era l’arte (economica) di arrangiarsi. La gig economy, ossia la sharing economy nel lavoro, seguiva di lì a poco con la stessa andatura. Nel giro di un decennio la gig economy è diventata paradossalmente un anti-eroe, un campione del neoliberismo, con le reiterate accuse ad Uber di sfruttamento o più recentemente alle piattaforme di food delivery. E così ormai si fa un tiro alla fune semantico che ora vede la gig come costrizione e non come opzione, come instabilità e non come flessibilità, come multitasking e non come multisettorialità.

Non entro nel merito di queste narrazioni. Mi limito a dire che credo profondamente nel concetto di gig economy e che il futuro del lavoro passi anche da essa. Per questo ritengo che meriti di tornare ad avere un outlook e una narrazione positiva (se sinonimo di flessibilità e multisettorialità).

Ciò passa inevitabilmente però per una fase di rafforzata cooperazione tra stakeholder e istituzioni, e con ciò non intendo la tipica negoziazione al ribasso ma il perseguimento di una win-win per tutti. Credo che si possa trovare la quadra e che questa quadra possa persino diventare un benchmark di riferimento per gli altri Paesi. Per fare una previsione direi che con il 2019 potremo superare la situazione di contrattualistica atomizzata e il recente trend a regionalizzare la normativa sui gig workers. E aggiungo che questa razionalizzazione legislativa fungerebbe tra l’altro anche da censimento per la gig, permettendo finalmente di avere numeri certi sui prestatori di servizio in Italia.

Non entro troppo nel dettaglio, ma sostengo comunque che supporto e ritengo sia necessario un contratto ad hoc per i prestatori di servizi nella app economy. Un contratto snello e semplice ma in cui i contributi Inps e Inail siano garantiti, perché non posso pensare che un early adopter della gig nel 2018 diventi un vecchietto senza minima nel 2042. Sarebbe poi saggio tenere in considerazione nella proposta alcune delle misure di welfare nel settore deliberate dal Parlamento Europeo in ottobre. Infine, votato il testo occorrerebbe poi identificare con chiarezza le piattaforme che possono avvalersi della nuova forma contrattuale per evitare un abuso dello strumento.

Il ruolo pubblico però non finisce qui. Credo che lo Stato debba impegnarsi per bloccare le piattaforme portatrici di un modello di business basato non su un naturale incrocio di domanda e offerta ma su una gara del minor offerente. Senza un’azione su questo problema è ipotizzabile nei prossimi decenni una spirale regressiva (anzi distopica) dell’economia del lavoro causata dall’effetto combinato di gara al ribasso del lavoro e dumping salariale online. Dunque uno scenario troppo neoliberista e troppo poco neoclassico del mercato del lavoro gig.

L’aspetto regolatorio (o di autoregolazione virtuosa) è quindi, da ogni punto di vista, la variabile discriminante per il futuro della percezione della gig economy. Perciò lancio un appello e scrivo qui che sono a totale disposizione di chi voglia fare del sano brainstorming per costruire una nuova forma contrattuale.

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