Papa Francesco in Paradiso e la Chiesa italiana all’Inferno. È questo il verdetto dell’anno che si chiude, secondo Ilvo Diamanti. Con il Rapporto Demos, il sociologo ha soppesato la fiducia degli italiani nei confronti delle principali istituzioni, con un sorprendente raffronto tra il 2008 e il 2018.
Procediamo con ordine: il Papa, insieme con le Forze dell’ordine, è in testa alla classifica della fiducia con il 72% dei consensi. La Chiesa cattolica, invece, registra un misero 38%. Ma il dato che più fa riflettere è il raffronto nel decennio: il Papa ha guadagnato ben 17 punti percentuali, mentre la Chiesa ne ha persi addirittura 20. Peggio di lei solo l’Unione Europea, che nel decennio ha dilapidato addirittura 25 punti di consenso. Ma se nel caso dell’Unione Europea si può chiamare in causa la massiccia campagna di propaganda antieuropea dispiegata soprattutto in questi ultimi cinque anni dalle forze sovraniste e populiste oggi al Governo, la Chiesa sembra aver fatto tutto da sola. Ma la realtà, è ovviamente, più complessa.
Da qui una serie di domande. Prima fra tutte: come si giustifica un divario così imponente fra la fiducia che riscuote il Papa e quella attribuita alla Chiesa? Di sicuro, il Papa raccoglie i frutti delle sue scelte, prima fra tutte la rinuncia a tutti gli orpelli della corte papalina. Tutto il suo comportamento quotidiano sembra attingere alla semplicità e al rigore della regola di Sant’Ignazio che a sua volta aveva ammirato la povertà di San Francesco. Non c’è veste liturgica che ricordi gli sfarzi di ieri o gesto che possa evocare la distanza dal popolo. Anzi, come ben sappiamo, se c’è una cosa alla quale il Papa non sa rinunciare è proprio quel contatto quotidiano con la gente che lui esercita anche vivendo a Casa Santa Marta e attraverso la messa quotidiana.
Il resto lo fanno i processi di disintermediazione da lui avviati, ad ogni livello, e che ne fanno un leader globale (qualcuno dice populista) che ama il dialogo diretto con le folle e che nella scelta di un linguaggio semplice, studiatamente elementare, tradisce la volontà di farsi capire sempre e comunque da tutti. Sino dall’ultimo dei clochard che sono la sua vera corte, sotto i colonnati di San Pietro.
C’è poi il ruolo sapiente dei media vaticani (soprattutto il Centro televisivo vaticano) che, puntando sulla sua capacità di relazione, ne hanno fatto un leader globale che parla prevalentemente italiano o spagnolo in ogni angolo del mondo. E la scelta della lingua italiana, con le sue inclinazioni argentine e con i suoi neologismi spagnoleggianti, lo fanno percepire dagli italiani come un arcitaliano.
Infine, la distanza dalla politica italiana lo premia. Al punto che la dissonanza evidente con la Lega in materia di immigrazione sembra non danneggiarlo se non marginalmente, mentre certamente lo accredita a sinistra. Così come l’attenzione ai poveri lo premia con i Cinquestelle. E poiché l’area della povertà ha superato in Italia i cinque milioni di persone, è ben chiaro che la sua propensione per gli ultimi venga percepita come un segno di vicinanza. Anche da una parte della politica italiana e di governo. Insomma, tutto gioca a suo favore, compreso quel martellante “non dimenticate di pregare per me” che conclude ogni suo incontro e che fa storcere il naso a qualche benpensante, ma piace moltissimo al popolo. Insomma, gli italiani si tengono stretto il Papa argentino.
La Chiesa italiana invece, fa una grande fatica. Si può ipotizzare che essa paghi un certo disallineamento rispetto all’agenda di Papa Francesco. Eppure, i vescovi hanno moltiplicato gli sforzi per essere al passo con lui, al punto da moltiplicare in ogni angolo d’Italia le opere di carità che in questi anni sono letteralmente fiorite. Ma la realtà non fa sconti. E quella fiducia al 38% è direttamente proporzionale al calo incessante dei fedeli. Si calcola, infatti, che in Italia sia in atto un crollo verticale della partecipazione alla liturgia domenicale, ormai inferiore al 20 per cento della popolazione. E che ormai il cattolicesimo italiano, sia destinato ad essere una minoranza. Anzi, come sostiene il cardinale Gianfranco Ravasi, bisogna affrettarsi a rendersene conto perché non si può vivere dei fasti di un tempo, quando nei Paesi “la domenica mattina suonavano le campane e la gente accorreva a messa”.
Sembrano così prevalere l’indifferenza e una sorta di apatia religiosa, alle quali la Chiesa italiana non riesce a dare una risposta efficace. Guardandosi attorno, si ha la sensazione che anche i segni del cristianesimo siano in rarefazione, così da far pensare che, con Dio o senza Dio, la vita scorra comunque. È questa la crisi della fede degli italiani: l’affermarsi dell’assioma degli illuministi, cioè “etsi Deus non daretur”, come se Dio non esistesse. Approdo finale della secolarizzazione, del relativismo e dell’individualismo. Ed è evidente che in questo contesto culturale e di prassi sociale la Chiesa italiana, pur sposando la solidarietà, non riesca a sfondare sul piano della credibilità. E certamente non può competere con Papa Francesco, neppure lontanamente, sul piano della popolarità.
Per carità, nessuno di noi può giudicare. Dobbiamo fermarci necessariamente alla superficie dei fenomeni e cercare di interpretarli. Ma, ad esempio, non ci si può neanche appellare alle presunte ingerenze politiche della Chiesa italiana nella vita del Paese. Ormai le questioni etiche che dieci anni fa erano all’ordine del giorno, ora sono precipitate nell’oblio. Così come non si registra alcuna presenza significativa di cattolici nella vita pubblica. Tutto è laico e tutto è consegnato alla dottrina e alla prassi della laicità.
E allora cosa spiega l’enorme favore per il Papa e la disaffezione palpabile nei confronti della Chiesa? Forse è il risultato più tangibile della religiosità liquida (alla Bauman) nella quale siamo tutti precipitati. Perciò possono bastare un applauso al Papa, una sua parola ascoltata in televisione, un suo gesto ammirevole di carità, un click di ammirazione in Facebook, per farci sentire tutti più vicini a lui. Credenti magari no (ché ci vorrebbe ben altro), ma più buoni sì.