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Vincolo di mandato. Perché non è una buona idea introdurlo

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Non è bastata una legge di Bilancio approvata senza che i parlamentari potessero discuterla. Nei propositi gioalloverdi del nuovo anno si profila qualcosa di più grave per il futuro del Parlamento italiano: l’introduzione del vincolo di mandato.

La modifica sostanziale dell’art. 67 della Costituzione previsto dal contratto sottoscritto da Lega e Cinquestelle non è questione da trattare con superficialità, né da lasciare in balia degli umori rancorosi riflessi dalle piattaforme dei social network. Si tratta di principi sostanziali, vere architravi su cui poggia nel nostro diritto un organo complesso come il Parlamento. Derivato dallo statuto Albertino, a sua volta derivato dalle costituzioni della rivoluzione francese, questo articolo pone il principio secondo il quale “ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”.

La norma fotografa lo status, la posizione giuridica rivestita dai membri del Parlamento, che non può essere correttamente interpretata se non si riflette sui molteplici rapporti in cui i parlamentari vengono a trovarsi, come suggeriva peraltro un autorevole membro dell’Assemblea Costituente quale Costantino Mortati, sui cui testi anche il giurista presidente del Consiglio, prof. Conte, ha studiato.

Quali sono questi molteplici rapporti? Innanzitutto, l’investitura popolare, ossia la loro derivazione dal corpo elettorale e la loro appartenenza ai partiti. Ad essi si accompagna la qualità di membri appartenenti al supremo organo costituzionale, cui è demandata la determinazione delle linee direttive della politica nazionale. In buona sostanza, il parlamentare ha un duplice legame. Con la società e con lo Stato. Attraverso di lui si fanno valere le scelte popolari e si trasformano quelle scelte in indirizzi, ordinamenti, leggi.

Per esser ancor più chiari, basta rifarsi un po’ alla storia dell’istituto parlamentare e agli accesi dibattiti in seno alla Costituente sulla forma di governo. Senza dover risalire alle origini dell’istituto parlamentare e del concetto stesso di rappresentanza nella sua duplice versione di rappresentanza della volontà popolare o di interessi di gruppi, ceti, categorie eccetera, qui preme sottolineare come il sorgere dei partiti abbia di fatto reso più complesso il rapporto rappresentativo. L’inserimento di un soggetto intermedio fra il popolo e i suoi rappresentanti avrebbe dovuto agevolare il dialogo tra elettori ed eletti, allargare le maglie della partecipazione dei cittadini alla vita pubblica e promuovere la selezione/formazione delle classi dirigenti. Con la personalizzazione della politica e il leaderismo portato all’eccesso abbiamo, nell’ultimo ventennio, assistito allo svuotamento dei partiti, soppiantati da oligarchie sempre più ristrette. L’annullamento del ruolo dei partiti, unito successivamente alla invasione pervasiva dei social, ha inflitto un vulnus nel corpo della stessa rappresentanza. Tra le tante crisi che hanno colpito la nostra democrazia, quella della rappresentanza non è certo la meno rilevante.

Di qui, però, a mettere in discussione il divieto di mandato imperativo in capo ai parlamentari, sancito dall’art. 67 della Costituzione, ne corre. Se è vero che il far parte di un partito, di un gruppo o di un movimento implica l’osservanza di una disciplina che ne limita l’autonomia, eliminare del tutto detta autonomia significa annullare in toto la libertà del parlamentare, mortificarne dignità e funzione. A partire appunto dal poter essere sganciato dallo stesso collegio di provenienza e, quindi, da una porzione ristretta di elettorato al solo fine di rappresentare la nazione nel suo insieme. Scalfire il ruolo del parlamentare porta, in definitiva, ad annullarne ogni potere, a renderlo una sorta di orpello, inutilmente decorativo.

Il divieto di mandato imperativo, nel senso storico e letterale, risponde all’esigenza primaria di garantire l’indipendenza del parlamentare da ogni influenza che ne possa, in qualunque modo e da chiunque provenga, condizionare le scelte e inibire le funzioni. Abolirlo, dopo aver svuotato i partiti, toglierebbe senso e significato anche al Parlamento. Pensare, d’altro canto, di arginare il trasformismo, i cambi di casacca, i cosiddetti voltagabbana che traslocano da un partito ad un altro, introducendo il mandato imperativo è soltanto una pericolosa illusione. Sarebbe molto più utile, anche per bloccare questo fenomeno, che, nelle nostra democrazia, è vecchio come il cucco, promuovere il riconoscimento giuridico dei partiti politici, la loro regolamentazione e organizzazione democratica. La Costituzione lo prevede. Ma finora non se ne è fatto nulla.



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