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Fake news, il precetto nei secoli fedeli alla Veritas

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Iniziamo chiamandole con il proprio nome, esplicito e nella nostra lingua. Partiamo dalle basi, dunque, dalle fondamenta, come recitava il claim di una presentazione di una nota concessionaria pubblicitaria, che mi ha colpito per i suoi contenuti e per il suo messaggio centrale. Un principio semplice ma significativo, a mio parere, replicabile in modo efficace in ogni altro contesto. In effetti è simpatico aprire una riflessione giornalistica con una citazione che rimandi all’ambito pubblicitario, ma forse la dice lunga del mestiere dei tempi nostri, che andiamo ora ad approfondire.

Partire dalle basi, qui, ha prima di tutto due significati, uno di “forma”, letterale, l’altro prettamente di “sostanza”.

Procediamo con ordine.

Sono sicuro che, se conducessimo un’indagine rapida tra le fasce di popolazione più ampie, emergerebbe una buona dose d’ignoranza sul significato pratico del termine fake news. Si tratta di quei termini e fenomeni che diventano di pubblico dominio, “di moda” in un certo momento storico. Ricorrenti ed utili da inserire in conversazioni private, pubbliche, personali e professionali, dalle aule ai talk di turno.

In realtà siamo in presenza di un concetto semplice, quello di notizie appunto false o alterate, dunque di distorsioni di quella realtà alla quale, “da manuale”, le notizie stesse devono rifarsi in modo fedele. Nei secoli, prendendo in prestito il nobile motto dell’Arma dei Carabinieri.

Quello della veritas, infatti, è – e dovrebbe essere – un precetto senza tempo. Anche se, oscillando tra un’affascinante idealismo ed un necessario realismo, purtroppo sappiamo non si riveli sempre tale.

La differenza sta indubbiamente nella qualità del lavoro “attorno” alla notizia e che da essa prende avvio. Ferme restando le qualità del singolo, dobbiamo riconoscere il peso di quelli che Emile Durkheim definiva “fatti sociali”, ovvero tenere conto dell’influenza del contesto sociale in cui certe dinamiche hanno luogo.

Così facendo arriviamo al secondo punto relativo alle fake news, quello di contenuto, che spieghi il perché non solo dell’esplosione del fenomeno, ma della sua diffusione su larga scala, fino al lessico comune dei giorni nostri.

Ho un’idea molto precisa a riguardo, legata a doppio filo proprio alle mutazioni che il trascorrere del tempo comporta. Con le conseguenze che una semplice lancetta, avanzando e tornando lentamente e delicatamente su sé stessa, traccia in un determinato contesto sociale con una forza, invece, potente e decisa. Producendo novità in termini tanto costruttivi, ovvero dando origine qualcosa che prima non esistesse, quanto in termini distruttivi, eliminandolo. Oppure ancora, produce effetti addolcendo o amplificando tratti di fenomeni che, ieri come oggi, animano la nostra società.

A questo proposito, bisogna partire da un elemento fondante del fenomeno fake news, sotto due punti di vista: il primo quello della sua stessa nascita, il secondo quello della sua diffusione.

Parliamo della famosa e discussa “rete”, entità che tante novità ha portato nelle nostre vite, anche qui, personali e lavorative. Non sempre in modo vantaggioso, a mio parere.

È evidente che la rete e gli ormai irrinunciabili social network continuino ad avere un ruolo anche nella nascita e nella proliferazione delle notizie false.

L’informazione è diventata molto accessibile, immediata, democratica, per scomodare una parola che piace tanto. Poi poco importa se questa democrazia porti con sé criticità che rischiano di comprometterne gli stessi principi fondanti.

Siamo prossimi all’antinomia kantiana, iper informati in tempo reale ma, spesso e contestualmente, sempre più ignoranti.

I meriti e l’utilità della rete e dei servizi che ci mette a disposizione non sono in discussione, è pacifico.

Altrettanto innegabile è però l’impatto sulla Conoscenza e sulle relazioni sociali. Con la solita dissonanza di effetti: possibilità di conoscenza e mantenimento di una “relazione digitale” in modo più semplice e continuo, ma pagando un caro prezzo in termini di annesse fugacità ed estemporaneità, tanto delle informazioni quanto delle relazioni sociali.

Stessa sorte, mi sento di dire, per la “Conoscenza e i suoi fratelli”, o meglio le sue sorelle come le le notizie.

In un recente stimolante dibattito dell’Aspen Institute abbiamo discusso di un tema affine ed è emersa una notizia, letteralmente tale, che mi ha molto colpito: una recente indagine ha rivelato che l’attenzione media su una notizia proposta dalle rete, anche attraverso i social, è di massimo 8 secondi.

Che dire.

Tempi, attimi, utili all’acquisizione di un dato, di una nozione. Di certo, però, non idonei all’approfondimento. Siamo raggiunti, dunque, da una moltitudine d’informazioni che senza rete e social non conosceremmo, ma allo stesso tempo siamo vittime di un’informazione incolore e superficiale. Neanche il tempo di leggere qualche riga che ecco subito comparire un nuovo post o arrivare la notifica di un sms, di una chat Whatsapp, di una mail, di un qualcosa avvenuto su Instagram, Facebook, Twitter, Linkedin e chi più ne ha più ne metta. Magari anche una chiamata, sempre più la “desaparecida” degli strumenti di comunicazione.

È chiaro che, così come in qualunque forma di caos si possa facilmente perdere un dettaglio, in un contesto siffatto è molto semplice produrre una notizia falsa o scorretta. In modo consapevole o meno. Il che non è un dettaglio.

Ci sono casi, infatti, in cui ciò avviene in modo naturale o spontaneo, altri in cui questa entropia viene sfruttata per ragioni di un qualche interesse di carattere personale o per una strategia di comunicazione o marketing.

Ecco venire subito in mente principi e teorie che vanno dai testi universitari a quelli di preparazione all’esame da giornalista, fino ai maestri che tutti noi giornalisti abbiamo avuto durante la formazione, i quali ce li inculcavano con una costanza quasi esasperante.

E dove sono finiti questi principi?

Soppiantati da un rapidità e da un modus operandi totalmente distante da quell’esigenza di approfondimento e “verifica delle fonti” di cui erano pieni i discorsi proprio dei libri e dei maestri di cui sopra.

Ricordo ancora il discorso di un importante dirigente televisivo che, nell’affrontare proprio la tematica della correttezza dell’informazione e dell’atteggiamento dei media, ha candidamente affermato che il compito dei mezzi di comunicazione è quello di comunicare, punto. La verifica della correttezza di teorie ed informazioni varie spetterebbe, invece, ad accademie ed Istituzioni preposte. Sono rimasto piuttosto sorpreso. Ed ho capito si tratta anche in questo caso di una conseguenza – non esclusiva, essendoci all’origine sempre i principi deontologici individuali ed altri fatti sociali, come la natura del nostro mercato editoriale su cui ci soffermeremo a breve – della veste futuristica dell’informazione attuale. Rapidità senza “se” e senza “ma”.

E mi sono chiesto: si può giungere al paradosso di essere tempestivamente informati ed al contempo disposti a pagare un prezzo così alto come quello dell’infondatezza dell’informazione che si riceve, inficiando tutto questo rapidissimo bel processo?

È uno dei tanti “non sensi” che se pensate oggi viviamo, ma qui sfoceremmo nell’antropologico, che non schiviamo – anzi – ma manteniamo nel perimetro del tema fake news.

C’è un dibattito tutto attuale sulla professione giornalistica e sull’Ordine che oggi continua a rappresentare i professionisti del settore. Una tutela di questi lavoratori e del prodotto del loro lavoro, le notizie, è assolutamente necessaria, anche se effettivamente bisogna prendere atto dell’influenza che il tempo e le innovazioni hanno esercitato sui meccanismi di funzionamento, sugli strumenti mestiere e proprio sulle figure professionali protagoniste dello stesso (nuovo?) mestiere. Considerate non solo le aumentate possibilità di leggere notizie, ma anche di produrne e diffondere, con tutto quel che ne consegue in termini di (non) regolamentazione. Senza che ci siano il nome di una testata o un luogo fisico come l’edicola, deputato vedere notizie provenienti da una filiera “garantita”, a certificare l’autenticità di quanto apprendiamo.

Quel che è assurdo a mio parere è che sempre più spesso di senta parlare di notizia “vera”.

Non dovrebbe essere un’affermazione “ridondante”?

La notizia dovrebbe racchiudere in sé la Verità di cui è portatrice. Il solo definire qualcosa con il nome di “notizia” dovrebbe garantire che si tratti di un fatti o informazioni assolutamente reali. Ma non è più così.

E forse non lo è mai stato?

Siamo arrivati ad un punto cruciale.

Continuo a sottolineare tutto il mio scetticismo nei confronti delle innovazioni di queste nuove piattaforme e modalità di comunicazione, quando s’intendano come “fonti” o produttrici di notizie. È ovviamente innegabile che per i servizi la rete e le sue applicazioni rappresentino una grande comodità, ma sulla corretta informazione?

Se avanzassimo domande sulla famosa regola delle “5W” tramessaci dalla storia del giornalismo anglosassone, quanti le riconoscerebbero nei testi che leggono o quanti “professionisti” di oggi – spero comunque in numero inferiore rispetto ai suddetti lettori – ci risponderebbero correttamente? Ovvero dicendo che si tratta degli elementi fondamentali che descrivono quello che dovrebbe contenere l’ “attacco” di ogni testo giornalistico, qui riportati per comodità.. e sicurezza: Who, What, When, Where, Why.

Parliamo delle basi. Nonostante ciò, quello che diciamo è dimostrato dai tanti testi che leggiamo, scritti senza tener presente non solo questa semplice regola, che dovrebbe essere naturale, ma anche tante altre. Arrivando a dar vita ad una scrittura sempre più contaminata dall’espressione verbale e dunque un po’ trascurata. Anche questa, secondo me, diretta conseguenza dei tempi e dei modi d’espressione che impongono i nuovi media: pochi testi, rapidi, come dimostra l’assoluta dominanza sulla rete di immagini e video, utilizzati per molte diverse tipologie di comunicazione. Con libri e quotidiani messi in crisi da questo trend.

Fattore che si trova altrettanto all’origine dei fake di cui parliamo, considerata la fragilità degli attori del settore dovuta all’ampia crisi dell’editoria.

Veniamo quindi ad una considerazione che ci aiuta a mettere in evidenza anche le buone qualità dei nuovi media o almeno a sgravarli da alcune responsabilità, che sinceramente non sono del tutto riconducibili alla loro entrata in scena.

Per questo dobbiamo partire da una considerazione sulla storia del nostro giornalismo, che porta ad uno scenario in cui è consolidato il dominio dei cosiddetti editori “impuri”. Non perché macchiati di chissà quale peccato originale ma, per esplicitare il significato dell’espressione, semplicemente attivi anche in altri settori rispetto a quello dell’editoria, che dunque rappresenta per loro un’attività non esclusiva.

La serietà degli editori stessi e dei loro giornalisti garantiscono da sempre la qualità della nostra informazione.

Al contempo, però, questa impostazione ha in certa misura a che fare con dinamiche che, fisiologicamente, potrebbero produrre qualche conseguenza sulle righe quotidianamente o periodicamente pubblicate.

Possiamo dire di aver letto notizie fake solo on line o su nuovi media?

Ci corre l’obbligo di essere sinceri. Ribadiamo che chiaramente ciò riguarda molto da vicino la deontologia professionale dell’individuo, ma altrettanto la struttura del contesto in cui egli presta la sua opera.

Altrimenti finiremmo per parlare di fake news ricorrendo a.. fake news.

Guardando al futuro le soluzioni non sono semplici. Perché così come si parla di sistema d’informazione si deve parlare di lavoro ed occupazione su cui si basa. E se da un lato è chiaro che non si possano alimentare le inefficienze di un sistema in cui il mercato deve essere sovrano, con le sue regole d’incontro tra domanda ed offerta, dall’altro non si può evitare di tener conto della centralità del lavoro di chi vede il raggio d’azione del suo lavoro ridursi progressivamente, spostando il prodotto del suo lavoro da un’edicola allo schermo di un tablet.

Prima di tutto ci vuole una chiamata alla responsabilità da parte di tutti, ricordarsi semplicemente dell’importanza del proprio lavoro nel diffondere informazioni corrette, verificate e reali: si tratta di ciò su cui la coscienza collettiva oggi si forma e si consolida.

Dal punto di vista collettivo, tener conto della necessità di rendere più efficiente un sistema: in esso è necessario trovare un giusto equilibrio tra le fonti di sostentamento dell’intervento pubblico e dell’anima del commercio qui rappresentato dalla famosa “pubblicità”, divenuta sempre più parte dei contenuti.

Di qui il merito di Andrea Camaiora, che ha voluto dedicare le interessanti pagine che seguiranno a questo tema, attualissimo, delicato, nonché di difficile analisi e soluzione.

Perché, tornando a quanto detto in apertura, se una fake news è assolutamente una “notizia falsa” può essere altrettanto vero che una fake news in certi casi possa essere null’altro che una notizia, o presunta tale, dunque un’informazione che non ha subito il corretto processo di verifica. O che, come spesso accade, coscientemente o meno non si trovi al suo posto. Ma a questo pensa spesso il “pubbliredazionale”, giano bifronte ed opera d’ingegno degna della migliore Mary Shelley.

Soluzione al problema o cristalizzazione di una contaminazione da gestire con cura?

Ai posteri l’ardua sentenza.

Anche se, a ben vedere, sul tema fake news il trascorrere del tempo sembra direttamente proporzionale all’avanzare del fenomeno.

La verità è che, più o meno provocatoriamente, possiamo affermare la stampa e i media non possono “dipendere” solo da sé stessi e la differenza, credo, la potrà fare chi avrà voglia, possibilità e coraggio di partire da questa consapevolezza e divulgare senza “appartenenze”, se non strettamente professionali e legate ai fatti, sociali e non.

Ma forse è solo un sogno. Il quale, però, altro non è che una fake news in cui è doveroso e legittimo credere.

Mario Benedetto, Giornalista professionista. Insegna Linguaggi dei nuovi media alla LUISS Guido Carli. Scrive per la pagina Cultura de Il Messaggero, cura il blog “Generazioni” su TgCom24.



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