Che l’annuncio della nomina di Lino Banfi in una Commissione tutto sommato onorifica quale quella italiana per l’Unesco, che ha non ha mai destato particolare attenzione da parte del pubblico medio, sia stata pensata per fare rumore, non è dubbio. E l’operazione, da questo punto di vista, è riuscita in pieno. L’attrito che si è cercato di creare ad arte è quello fra una figura rappresentativa e nota della comicità popolare più semplice e l’idea che uno ha di queste assemblee come un consesso di dotti accademici o intellettuali raffinati.
Certo, questa idea di commissione culturale è stata già da tempo superata, tanto che la cosiddetta cinematografia di serie b è stata in Italia sdoganata, e per di più a sinistra, sin dai tempi dell’ “effimero” di Renato Nicolini e in genere da quel modo di vedere la cultura colto-popolare che chiamiamo “veltronismo”. Lo stesso Andrea Carandini, illustre archeologo e presidente del Fai, in un intervento sul Corriere di oggi, non sembra mostrarsi particolarmente stupito, né tanto meno indignato. Probabilmente, fatta da un governo di sinistra, la nomina di Banfi non avrebbe suscitato scalpore e sarebbe risultata persino normale. Essa invece fa notizia perché si inserisce in un più vasto e ostentato processo di “popolarizzazione” (per alcuni “involgarimento”) delle istituzioni che i Cinque Stelle sembrano portare avanti e che, come esito positivo, sembra contenere per ora solo un tendenziale e benvenuto processo di ricambio delle classi dirigenti italiane.
La parabola di Banfi, uno che ha fatto tanta gavetta e che da interprete di film pruriginosi e scollacciati è diventato, nella realtà e nella finzione, un nonno rassicurante e dalla sana saggezza popolare, manda il messaggio che tutti possono farcela se le vecchie “caste” vengono messe da parte. Il rischio è che però, dietro questo processo ostentato, non si abbiano ancora in mente le coordinate per un vero cambiamento di mentalità, e quindi una vera rivoluzione. Ne viene fuori un continuismo di sostanza, fra l’altro dai tratti goffi, seppure con altri protagonisti. Non è un caso che in queste ore non si senta una critica all’Unesco, che è una di quelle istituzioni sovranazionali che negli anni hanno messo su dei baracconi burocratici e spesso inefficaci che poco sono serviti a quegli scopi di promozione della cultura per cui erano nate.
La macchina che porta all’assegnazione a siti ameni, ma anche a cibi come la “pizza napoletana” (sic!), del marchio di “patrimonio dell’umanità” è, ad esempio, una implacabile “macchina” per fari soldi: i fini commerciali e non quelli culturali sembrano muoverla. Non è esagerato poi dire che l’Unesco sia rappresentativa in sommo grado, con le sue procedure e la sua “filosofia”, di quella crisi della cultura occidentale, e quindi mondiale, che è propria dei nostri tempi. La nomina di Banfi, che come prima uscita propone di fare anche della sua Canosa di Puglia un “patrimonio dell’umanità”, non sembra stata dettata da una critica seria, che secondo me ci vorrebbe, dell’istituzione. Potrebbe un domani essere vista come un gesto dadaista di provocazione intellettuale. Ma non lo sarà se non saranno messe sul tavolo, prima o poi, le questioni, diciamo così di governance mondiale della cultura, a cui ora ho qui rapidamente accennato.