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L’apertura dei corridoi umanitari in Venezuela? Un’arma a doppio taglio. La tesi di Pino Cabras (M5S)

Giorni fa, il deputato del Movimento 5 Stelle, Pino Cabras, membro Commissione Affari esteri e della Commissione finanze della Camera dei deputati, ha acceso una polveriera per le sue dichiarazioni sulla crisi del Venezuela.

Il suo nome è stato aggiunto alla lista di “difensori” di Nicolás Maduro tra la comunità italo-venezuelana, che cerca in tutti i modi di sottolineare come la situazione non sia un confronto ideologico o uno scontro tra destra e sinistra, ma uno scenario di disperazione per i milioni di venezuelani che vivono in stato di miseria.

In un’intervista esclusiva con Formiche.net, Cabras sostiene che la crisi economica ed umanitaria del Venezuela ha radici antiche, ma insiste che il modello promosso dall’ex presidente Hugo Chávez (predecessore e mentore di Maduro) ha migliorato la qualità di vita dei venezuelani. La mancanza di medicine nel Paese? Non è colpa di Maduro. E l’apertura di un corridoio per gli aiuti umanitari potrebbe rappresentare un’arma a doppio taglio, che cronicizzerebbe la crisi.

Sebbene Cabras ammetta che la democrazia venezuelana non goda di ottima salute, resta su alcuni precetti seguiti dai pentastellati riguardo la congiuntura del Paese sudamericano. Secondo il deputato, la situazione venezuelana ha bisogno di un percorso di ravvicinamento tra le fazioni politiche che compongono il Paese. Non c’è scampo per il dialogo, anche se è una strada tentata più volte. I due organi – opposizione e chavismo – dovranno imparare a vivere nello stesso corpo. Lui ricorda che il sistema elettronico del voto è stato definito dal Centro Carter come uno dei migliori al mondo e sottolinea che il risultato in cui è stato eletto Nicolás Maduro “non era sostanzialmente inquinato”.

Alcuni esponenti del suo partito sono d’accordo con la convocazione di nuove elezioni in Venezuela, mentre Alessandro Di Battista no. Qual è la sua opinione? Pensa che questo pensiero (forse personale) dell’ex deputato determini la linea del M5S e quella dell’Italia sulla crisi venezuelana?

In un Paese in cui si è aperta una faglia così larga fra due blocchi sociali e politici che si delegittimano reciprocamente occorrerà ripristinare una condizione propria di una democrazia funzionante, in cui i due polmoni della politica venezuelana dovranno respirare nello stesso petto: servirà un suffragio in grado di legittimare di nuovo (anche reciprocamente) una maggioranza e un’opposizione che discutano nella medesima aula, senza che prevalga la logica della “debellatio”. Non mi pare affatto che Alessandro Di Battista sia contrario a un nuovo percorso elettorale. È contrario però agli ultimatum, questo sì, tanto più se si tratta di ultimatum da otto giorni, come in una logica di guerra. Poiché la crisi a Caracas viene da lontano, le soluzioni devono essere prudenti, pazienti, non unilaterali, e orientate a sciogliere i nodi uno per uno. Serve un percorso di riconciliazione che sappiamo essere difficile, ma che non ammette scorciatoie.

I risultati delle elezioni vinte da Maduro sono stati inquinati (l’ha riconosciuto la stessa impresa che regola il sistema elettronico del voto, Smartmatic), ma lui ha voluto insediarsi lo stesso. Qual è, secondo lei, lo stato della democrazia in Venezuela in questo momento?

Distinguerei innanzitutto il giudizio fra sistema di voto e “stato della democrazia”, temi che hanno una portata diversa, perché la democrazia non si riduce al solo esercizio del voto ma implica anche il modo in cui ci si può formare le opinioni e come si partecipa alle formazioni politiche e sociali. Il sistema di voto elettronico venezuelano, qualche anno fa, fu definito dall’ex presidente Jimmy Carter – che monitora con la sua fondazione le elezioni di Paesi di tutto il pianeta – come “il migliore del mondo”. Gli piaceva la ridondanza di accorgimenti che garantivano segretezza, unicità del voto, rapidità dello scrutinio, in un contesto in cui tutti i partiti erano chiamati a testare il sistema prima e dopo il voto. Certo, finché non si adotteranno universalmente sistemi blockchain o ulteriori evoluzioni, il voto elettronico può presentare vulnerabilità, ma abbiamo visto decisamente di peggio in altri Paesi sia dell’America Latina e dell’Occidente. Quel voto che ha insediato Maduro alla presidenza non era sostanzialmente inquinato. Ma rimane un problema politico di consenso rispetto alla metà degli elettori che non hanno votato e che in parte gli sono radicalmente ostili. Ma si tratta appunto di una questione politica importante, non di una questione di legittimità costituzionale da aggravare con ingerenze e assedi dall’estero.

Molti giovani sono stati arrestati in queste ore perché hanno protestato contro la gestione di Nicolás Maduro, che pensa di questo e come – secondo lei – può iniziarsi un percorso di dialogo quando una delle parti esercita queste pressioni?

Una parte delle proteste, da anni, ha preso la forma violenta della sedizione. Non conosco Stato al mondo che di fronte ai tumulti non rivendichi il monopolio della violenza, anche laddove faccia concessioni. Ad esempio, solo nel primo mese delle proteste dei gilet gialli in Francia si sono contati 2900 feriti (di cui un migliaio di agenti) e 10 morti. Il presidente Macron è andato nondimeno in tv a cercare il dialogo. L’Ue, lungi dal lanciargli un ultimatum o imporgli sanzioni, gli ha concesso di fare il 3,5% di deficit per cercare di sopire le sommosse. In Venezuela ora la questione viene ulteriormente complicata dal nome che i falchi hanno imposto a Donald Trump per gestire il dossier Caracas: Elliot Abrams, un neocon che è la bestia nera di Amnesty International e altre organizzazioni dei diritti umani per come ha organizzato la violenza politica in molti Paesi dell’America Latina e che ora prenderà in mano i vertici delle opposizioni oltranziste venezuelane. Non dimentichiamo che queste già ricevono milioni di dollari dagli enti di influenza statunitensi come il Ned (National endowment for democracy). Solo che ora, temo, si passerà dal soft power all’hard power. Non sta soltanto nelle mani di Maduro la possibilità di abbassare la febbre tropicale della politica.

Il modello economico di Nicolás Maduro (con uno Stato profondamente assistenzialista, nazionalizzazioni di imprese e smantellamento dell’impresa privata) non ha dato buoni risultati. Secondo lei, cosa non ha funzionato e come il Paese potrebbe uscire dalla crisi economica?

Il predecessore di Maduro, Hugo Chávez, ha creato un blocco sociale che non si era mai visto in Venezuela, tanto da coalizzare masse di diseredati che hanno migliorato le proprie condizioni di vita e di istruzione, in un contesto in cui tanti altri grandi Paesi dell’America Latina si son posti l’obiettivo di assicurare a tutti “tre pasti al giorno” (era uno slogan – e uno dei successi – di Lula in Brasile). Milioni di persone sono ancora dentro questo blocco sociale, anche se le sue fortune passate sono dipese da un ceto troppo burocratico che ha redistribuito i proventi del petrolio senza diversificare l’economia. Il mix di prezzi bassi del greggio, sabotaggi della logistica e sanzioni inflitte da Washington ha fatto avvitare l’economia, svelando i limiti storici del chavismo. Servono tuttavia riforme, non controriforme: penso all’Argentina, dove il revanchismo delle forze legate a Macri ha riportato un’ondata di nuove diseguaglianze che hanno peggiorato l’economia. L’economia venezuelana potrebbe riprendersi con un programma di economia mista che sia interclassista e non introduca ricette iperliberiste. L’Unione europea potrebbe fare la sua parte.

Maduro non vuole riconoscere la crisi umanitaria, mentre la popolazione (tra cui molti italiani) soffre la fame e la mancanza di medicine. Qual è la motivazione di questa negazione e – secondo lei – come si potrebbe contribuire ad avviare il riconoscimento per l’apertura del canale di aiuti umanitari?

Certi corridoi umanitari sono percepiti come armi a doppio taglio, perché attenuano alcune sofferenze, ma cronicizzano le crisi, moltiplicando gli attori in campo, non tutti disinteressati e non tutti gandhiani. Gli Stati non vogliono affidare ad altri Stati, di fatto, le questioni cruciali della propria sicurezza. Non dimentichiamo poi che se si pratica un embargo sui farmaci per danneggiare un governo, dopo risulta bizzarro incolparlo perché mancano le medicine nelle farmacie. Se le pressioni su Caracas non fossero nella forma della guerra economica, magari la crisi si attenuerebbe.

Il Venezuela sembra essere in mezzo ad uno scontro geopolitico (Stati Uniti da una parte, Russia/Cina/Turchia dall’altra) che poco riguarda la crisi quotidiana che vivono i venezuelani in questo momento. Molti sostengono che sia per gli interessi americani nelle piattaforme petrolifere del Venezuela. Ma forse anche Mosca e gli altri difendono gli affari con Maduro. Come pensa che può contenersi questa escalation e come può contribuire il resto della comunità internazionale a favore del popolo venezuelano?

Vedo ulteriori elementi di potenziale scontro geopolitico. Il recente ritiro degli Stati Uniti dal trattato Inf, l’accordo che impediva di schierare missili nucleari a raggio intermedio, può consentire a Washington di dispiegare in Europa una nuova generazione di missili in grado di colpire la Russia in pochi minuti, cosa che modifica gli equilibri strategici globali. E siccome a Washington sanno che Mosca prenderebbe contromisure, guardano alla cartina geografica e osservano quanti Paesi potrebbero ospitare missili russi (o cinesi) analoghi a poca distanza dal suolo statunitense. Il Venezuela diventa un luogo chiave. Il recesso da questo trattato rende improvvisamente tutti più insicuri, noi europei e – purtroppo – anche i cittadini venezuelani. Perciò chiedo a tutti di sollevare lo sguardo dalla situazione contingente e considerare che l’obiettivo della pace coincide con migliori condizioni di vita per tutti, che sarebbero pregiudicate da guerre locali e da una corsa al riarmo.


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