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Nel cognome della madre, una campagna contro la famiglia

Di prima mattina scopro che il cognome del padre è in grado di arrecare i seguenti danni gravi alle donne:

1) difficoltà ad essere rappresentate in politica da altre donne;

2) incapacità di relazionarsi con la famiglia della madre come con quella paterna;

3) lesione dei diritti della madre, relegata a condizione di marginalità sociale.

Confesso che non me ne ero mai accorto.

Ho letto la notizia nella blog “La 27esima ora” del Corriere della Sera in un post di Antonella De Gregorio che promuove la campagna “Nel cognome della madre” a sostegno della libera scelta dei cognomi. Un’iniziativa che ha lo «scopo di chiedere al Parlamento Italiano che sia finalmente approvata una normativa chiara e certa sulla possibilità di scelta del cognome, che sia quello del padre o della madre o di entrambi, così che sia superata l’attuale legislazione, figlia di una visione familiare superata dai tempi e dall’attuale organizzazione sociale».

Sono consapevole di peccare ma non posso fare a meno di ritenere che alla denuncia circa i danni psicologici, affettivi e sociali che il cognome paterno causerebbe alle donne non sia estraneo il lancio della campagna in questione.

Lo ammetto: è una campagna che non condivido: se fosse vero che il cognome paterno arreca danni alle donne allora più che il diritto dei genitori di scegliere il cognome per i figli dovrebbe essere previsto l’obbligo di imporre quello materno alle figlie!

Se posso comprendere che – come osservato dal Presidente della Corte costituzionale, Franco Gallo – il “solo cognome paterno costituisce il retaggio di una concezione patriarcale della famiglia” è, però, indubbio che lasciare i genitori liberi di scegliere il cognome da attribuire ai figli significa dissolvere l’identità della famiglia come comunità.

Appena insediato il governo Monti varò la riforma dei cognomi di famiglia riconoscendo, questa volta, ai figli il diritto di scegliere il proprio cognome. La riforma non è stata approvata dal Parlamento. Ma le considerazioni a suo tempo svolte sono ancora attuali “Il legame tra figli e con i genitori ha una radice biologica, ma si alimenta anche di simboli. E tra questi, uno dei più importanti è il cognome. Il cognome rende pubblicamente riconoscibile un rapporto altrimenti intimo e privato. Il cognome è un “bene relazionale”, un “bene comune”, che appartiene alla comunità (genitori e figli) che contraddistingue. Riconoscendo a “chiunque” (come recita il testo) il diritto di aggiungere un altro cognome a quello ereditato si riconosce al singolo il diritto di disporre di un bene che non gli è proprio perché appartiene alla comunità familiare in quanto tale. Ma quello che è più grave si consente al singolo di pregiudicare il diritto (degli altri) ad essere una famiglia perché nel momento in cui anche un solo figlio cambia il proprio cognome cessa la capacità identificativa di quest’ultimo e la famiglia si dissolve come soggetto pubblicamente riconosciuto e riconoscibile”.

Ora, se si vuole superare la concezione patriarcale della famiglia la strada non è quella di attribuire ai genitori la libertà di chiamare i figli come si vuole ma piuttosto quella di prevedere, come regola, il doppio cognome. Solo l’introduzione di una regola generale per tutte le famiglie consentirà di salvaguardare l’identità pubblica di queste ultime. Diversamente non saranno più riconoscibili nel passaggio generazionale.

O il vero obiettivo non è tanto quello di superare la concezione patriarcale della famiglia ma lo stesso concetto di famiglia? A pensar male si fa peccato, ma come ammoniva Giulio Andreotti spesso si indovina…

 

 


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