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Il teorico del rapporto Fede/vita: S. Kierkegaard

 

Nella Lectio Magistralis tenuta negli incontri de “Il Cortile dei Gentili” (Catanzaro, 21 aprile 2013), il cardinale Gianfranco Ravasi ha parlato del rapporto tra Fede e religione, citando uno splendido passaggio del filosofo danese Søren Kierkegaard (1813-1855), del quale ricordiamo oggi il secondo centenario della nascita, avvenuta a Copenhagen il 5 maggio 1813.

«La fede – ha spiegato il presidente del Pontificio Consiglio della Culturaè il punto terminale più alto della relazione umana: invita ad andare oltre, a scoprire il senso ultimo delle cose. Dice  Kierkegaard, “La fede è la più alta passione d’ogni uomo. Ci sono forse in ogni generazione molti uomini che non arrivano fino ad essa, ma nessuno va oltre» (cit. in Anna Rotundo, “Etica, Religiosità, Corresponsabilità” , Agenzia “Zenit”, 22 Aprile 2013).

Partendo da questa citazione possiamo arrivare al cuore della pensiero del filosofo danese che ci appare oggi particolarmente utile. La Fede è solo per l’uomo che non rinuncia alla sua singolare unità che, fra l’altro, non permette in alcun modo di assimilarlo alla “massa” o, tanto meno, ad un “animale umano” come vorrebbero certi fanatici della “biosfera” e dell’ecologismo ideologico. Come spiega il filosofo cattolico Maurizio Schoepflin, «Di fronte al pensiero di Hegel, che aveva esaltato il valore della verità oggettiva e dello Spirito che riassume e risolve in sé ogni individualità, Kierkegaard affermò con forza l’irriducibile dimensione del singolo: ogni persona è un unicum, una realtà originale e irripetibile, alla quale non possono certo essere applicate le categorie dell’oggettività e dell’universalità, tanto care a Hegel» (M. Schoepflin, Kierkegaard e la ricerca della verità, in Etruria Oggi. Periodico quadrimestrale di informazione, anno XXXI n. 85, aprile 2013, p. 35).

Ecco il significato della vita religiosa, profondamente diversa sia da quella estetica sia da quella etica: per spiegarne il senso, Kierkegaard ricorre all’esempio del biblico patriarca Abramo, che, a settant’anni, riceve da Dio l’ordine di sacrificare il figlio Isacco, ovvero di macchiarsi di un crimine orrendo. «Abramo obbedisce, dimostrando che la sua fede è totale e capace di spingerlo a portare a termine un’azione umanamente folle ed esecranda. Secondo Kierkegaard, la vicenda di Abramo ci insegna che la scelta religiosa implica il rischio, il paradosso, lo scandalo: così, per altro, fu per Gesù Cristo stesso, la cui storia – dall’incarnazione alla passione, morte e resurrezione – è contraddistinta da quella che san Paolo definisce “stoltezza”, una “stoltezza” del tutto incomprensibile agli uomini, ma che, secondo i piani divini, è forza redentrice» (M. Schoepflin, art. cit.).

Insomma, per l’autentico credente la vera imitazione di Cristo è la più perfetta realizzazione della propria vita, perché in essa egli trova gioia e, già fin da questa vita, ricompensa. Quindi, come sostiene lo stesso Schoepflin in altro saggio sempre dedicato al filosofo danese, «Agli occhi di Kierkegaard l’imitazione non appare frutto di obbligo, né si impone come un peso intollerabile da portare con rassegnata pazienza. V’è, a tale riguardo, un brano molto eloquente del Diario nel quale il pensatore danese esprime le sue convinzioni circa la più vera natura e origine dell’autentica imitazione: “Che vuole Cristo? Anzitutto e soprattutto la fede. Poi la gratitudine. Questa gratitudine è nel discepolo, in un senso più rigoroso, l’“imitazione”. Ma anche il cristiano più debole ha questo in comune col discepolo più forte: mostrare gratitudine. L’“imitazione” non è un’esigenza della legge (così si ricadrebbe di nuovo nel legalismo), ma l’espressione più forte di gratitudine nel più forte. L’“imitazione” non è l’esigenza della legge con cui un povero uomo deve torturare se stesso”» (M. Schoepflin, Søren Kierkegaard a duecento anni dalla nascita, in Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, 5 maggio 2013).



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