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L’ultimo Scià d’Iran. Ritratto di una monarchia millenaria e di un paese che non c’è più

All’inizio dell’ormai lontano 1979, in coincidenza con la rivoluzione islamica iraniana dell’imam Khomeyni, l’allora Scià di Persia Muhammad Reza Pahlavi veniva allontanato dall’Iran, l’amato paese nel quale non avrebbe fatto più ritorno. Il termine Scià, che deriva dalla cultura ottomana e richiama la parola pascià, in turco paşa, sta ad indicare un re assoluto con forti caratteri spirituali; nella sua etimologia di origine millenaria, Shahanshah, “Re dei re”. Da allora, da quel 16 gennaio, sono passati quarant’anni. Fu il tramonto di una monarchia restata gloriosamente in vita per ben 2.500 anni, a cui è subentrato una processo rivoluzionario di carattere teocratico, volto all’instaurazione di un ordine socio-politico fondato sulla legge divina, che infine sfociò nell’attuale Iran. Un soggetto, quello dell’ultimo governatore dalla dinastia dei Pahlavi, dinastia che prese il potere nel ’25 rendendo l’Iran il maggiore alleato degli Stati Uniti nell’area, che in Italia trova scarsezza di pubblicazioni e che il giornalista Francesco De Leo, a molti noto come voce della politica estera per Radio Radicale, ha il merito di portare sugli scaffali delle librerie per Guerini e Associati.

“L’ultimo Scià è un bel viatico per capire cosa sta succedendo adesso in Iran, allora una monarchia costituzionale che teneva in piedi un’area variegata e complessa”, sostiene la senatrice di Forza Italia Anna Maria Bernini durante la presentazione del volume che ha avuto luogo a Roma, presso la Biblioteca della Camera dei deputati. “È un volume che descrive il futuro, l’Iran è un paese vecchissimo ma molto giovane, la metà della popolazione ha meno di trent’anni e si muove sui social network, e non a caso si stanno muovendo percorsi rivoluzionari, visto che è un popolo sicuramente incline alla rivoluzione. È in atto qualcosa, un processo, un percorso che ha nell’ultimo Scià un antesignano, una preconizzazione di contenuti”, spiega la senatrice forzista ricordando come già nel 1936 il padre dello Scià Reza Pahlavi eliminò il velo, “con approccio per alcune liberatorio per altre drammatico”. “Il processo di modernizzazione era già in atto ma era talmente veloce che non si riusciva a seguire”.

Nel libro di Francesco De Leo, attraverso dialoghi con alcuni dei personaggi legati in maniera diretta all’Iran e al processo storico che ha visto prima la rivoluzione bianca, suggerita dall’allora presidente americano John F. Kennedy, e poi l’instaurazione della Repubblica Islamica dell’Iran, c’è perciò di tutto: la figura dello Scià e della riforma in una società prettamente rurale, il rapporto con il clero e con le grandi potenze internazionali, la questione dell’energia e del petrolio, dove lui stesso aveva capito con chiarezza che il petrolio sarebbe potuto diventare la principale risorsa per il paese. Fino al culmine della rivoluzione islamica e del definitivo allontanamento dello Scià nel gennaio ’79, da cui non tornò mai indietro. Le giovani generazioni di oggi perciò non hanno visto lo Scià con i loro occhi, ma di lui ne sentono l’eco, attraverso i racconti e le rievocazioni, e da cui spesso ne restano ammaliati. Specialmente nel vedere le foto di giovani abbigliate all’occidentale, di strade pullulanti di giovani liberi e sorridenti, di un paese insomma che per tanti versi oggi non c’è più.

“Quello che non vediamo dell’Iran è che è una società più giovane, laica e normale di quello che ci aspettiamo. Noi forse ci aspettiamo un’altra rivoluzione in Iran, ma la vera rivoluzione è voglia di una vita normale di benessere e di tranquillità”, ha dal suo canto sostenuto la deputata del Pd Lia Quartapelle. “I giovani iraniani si rifanno a cosa c’era prima, non a modelli esterni ma a una continuità di stabilità, di maggiore apertura e prospettive di benessere. La richiesta rivoluzionaria di giovani d’oggi che non hanno conosciuto il passato è una richiesta di normalità, e ci può dire molto rispetto alla rivoluzione nel regime nei prossimi anni”, spiega la democratica. Dopo di lei la parola è passata al pianista Ramin Bahrami, il cui padre fu assassinato perché oppositore del regime quando lui aveva 11 anni, al termine della guerra con l’Iraq di Saddam Hussein, e che nel libro fa un parallelo tra la musica di Bach e la Persia, “un impero meraviglioso dove ottanta razze e etnie diverse convivevano tra loro, senza bisogno di schiavi e dove le consonanze e le dissonanze si incontrano come nella musica di Bach”.

Il libro comincia con un’intervista immaginaria allo Scià, espediente letterario che solo certi possono permettersi, e alla fine però si conclude con un altro dialogo, stavolta reale, con Farah Diba, l’ultima Imperatrice d’Iran, da cui emerge una riflessione profonda su un regime attualmente schiavo di una tendenza di carattere prevalentemente oscurantista, ma per molti alla vigilia di un nuovo mutamento importante, epocale. Anche alla luce degli intricati mutamenti dell’attualità geopolitica.

“L’Iran era un paese decisamente moderno, con le persone che giravano tranquillamente e si respirava un’aria molto diversa da oggi. Lo Scià era riuscito a sviluppare notevolmente l’apparato militare, avevano un esercito moderno e avevano comprato elicotteri dall’Italia”, ha proseguito Umberto Vattani, presidente della Venice International University e già segretario generale per due volte alla Farnesina. “Quando andai nel ’78 con Forlani, 14 anni dopo, la situazione era molto cambiata. In quei giorni in Italia c’era il rapimento di Aldo Moro, e lui si stupì che un paese come il nostro potesse subire una cosa del genere, pensava a fenomeni di lassismo anche nelle forze di polizia. Del ceto alto, ricordo l’eleganza, e le lingue diffuse, specialmente francese e tedesco”, ricorda. “Lo Scià vedeva però già allora espandersi l’odio verso la polizia segreta, e immaginava che sarebbero cominciate presto le manifestazioni. L’Iran non ha mai avuto un affaccio sul Mediterraneo, e ancora oggi con la crisi siriana resta lo stesso desiderio”.

“Ricordo un paese interessante di persone colte”, continua l’ambasciatore Amedeo de Franchis, presidente di sezione onorario del Consiglio di Stato. “Lo Scià in fondo era per vocazione un modernizzatore, avrebbe voluto un Iran che mostrasse grande edifici moderni, pensava non fosse opportuno vedere cammelli nelle strade, davano l’impressione di sottosviluppo. Quando si faceva costruire, però, venivano buttati giù palazzi di fango bellissimi e venivamo messi palazzi moderni, di poco interesse. Mentre la regina, a differenza sua, era per conservare la tradizione. C’era questa dicotomia tra lo Scià che spingeva per cose nuove e la regina che cercava di mantenere le vecchie”. Ma “come è possibile che un paese possa cambiare tanto solo se cambia regime politico non lo so, non credo che la monarchia possa tornare in Iran”, sostiene poi Alessandro Minuto Rizzo, già vice segretario della Nato e presidente della Nato Defense College Foundation. “Restano però domande importanti. Come è possibile che un paese come la repubblica islamica di oggi, che all’inizio piaceva a molti progressisti, è una repubblica che copre di nero le donne come i talebani in Afghanistan?”.

“Abbiamo letto l’Iran del passato con tanti stereotipi: all’epoca c’era già una èlite scollegata rispetto alle dinamiche del paese, come oggi c’è una èlite più grande ma sempre scollegata alle dinamiche del paese. La monarchia costituzionale l’abbiamo uccisa noi occidentali nel ‘53, dopo c’è stata una trasformazione”, è infine l’analisi di Nicola Pedde, direttore dell’Institute of Global Studies. “L’istruzione elevata era sicuramente data dallo Scià, ma la riforma agraria è stata un fallimento, ha svuotato le campagne e fatto diventare le città agglomerati invivibili dove è cresciuto lo scontento. Non si accorsero di quanto fosse rapida la dinamica che avevano innescato”, ha dettagliato lo studioso, spiegando che “tra chi considera l’Iran bastione del radicalismo e chi simbolo del progresso in Medio oriente, la verità sta nel mezzo e la visione occidentale è inapplicabile all’Iran”.

Ciò che infine ci si chiede è, oggi, dove stiamo andando? “In una direzione molto simile a quella dell’epoca pre-rivoluzionaria, di scontro e di abbandono delle dinamiche legate a diplomazia e dialogo, e ci affidiamo all’idea che l’unica rivoluzione dell’Iran sia un cambiamento di regime”, risponde Pedde. Che tuttavia mette bene in evidenza il suo pensiero. “Trovo estremamente pericoloso spingere l’acceleratore in questa dinamica, non credo che sia nell’interesse di nessuno augurarsi il collasso del sistema sociopolitico iraniano o come di altre regioni”. Il tutto per spiegare che “la rivoluzione fu un processo lungo ma ha radici profonde nel paese e ha dinamiche molto più profonde e complesse. Le forze di opposizione furono moltissime, ed era tutto fuorché islamica e religiosa, ma aveva un connotato laico e di estrazione sostanzialmente marxista. La composizione sociale che ha portato al processo rivoluzionario fu molto variegata”


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