Caro direttore,
la storia personale del neo ministro Cècile Kyenge è quella di una persona capace e volitiva, che è riuscita a realizzare le sua ambizione giovanile di conseguire una laurea in medicina, obiettivo raggiunto poi in un Paese straniero. Leggendo le sue note, si scopre che è giunta in Italia nel 1983, ha studiato la nostra lingua e si è mantenuta agli studi lavorando come badante.
Un percorso certamente non facile in quegli anni, quando ancora incrociare per strada una persona dal colore della pelle diverso dal nostro era una rarità. Quindi, la sua è una esperienza che merita ammirazione, ma non perché la dottoressa Kyenge è di colore, bensì per le doti di coraggio e volontà di raggiungere i suoi obbiettivi che ha dimostrato di possedere, i quali ovviamente non sono imputabili al pigmento della pelle.
Da qualche giorno, è ministro per l’integrazione nel governo Letta: il primo ministro di colore nella storia della Repubblica italiana. Ma questo deve essere inteso come la naturale positiva evoluzione di un Paese sempre più multietnico. Cècile è una cittadina italiana, con l’esperienza personale e i titoli adeguati a ricoprire quella funzione: è una questione di merito, non di nascita o di appartenenza a una razza. Gode quindi dei diritti politici passivi che le spettano dal suo status di essere cittadina italiana: è stata eletta in Parlamento dopo una lunga attività, facendo la gavetta da consigliere comunale a provinciale fino a giungere Roma. Le critiche sollevatesi dopo la sua nomina da parte di alcuni sono talmente stupide e pretestuose da non meritare alcun commento.
Ora però, cara dottoressa, non esageri, ovvero non commetta l’errore di cadere vittima di eccessi di presenzialismo con annunci urbi e orbi sulla questione dello ius soli o sull’abrogazione del reato di immigrazione clandestina. Sono temi di civiltà e non devono essere confusi con eventuali fini di sterile propaganda. In particolare, il primo comporterebbe una serie di problematiche se non regolamentato: occorre una serie di norme che escludano la possibilità per chiunque di approfittarne, magari solo facendo nascere il proprio figlio in Italia per poi tornarsene immediatamente nel Paese di origine. L’esempio da seguire può essere quello degli Stati Uniti dove è previsto lo ius soli, ma nel contempo pone un’attenzione particolare per le partorienti che entrano nel Paese e per i matrimoni “combinati” tra cittadini americani e stranieri.
Quindi, caro ministro, è auspicabile una maggiore cautela su temi oltremodo delicati, certamente significativi del grado di civiltà di una nazione, ma che rischiano di assumere il sapore di un populismo sterile se non affrontati, discussi e concordati nell’ambito collegiale di un governo che, allo stato, sembra essere vittima delle uscite estemporanee e solitarie dei suoi componenti, rischiando così di rompere il fragile, fragilissimo equilibrio raggiunto.