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Un partito per i cattolici? I rischi per chi si lancia in questa avventura

Di Riccardo Pedrizzi
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Il mondo cattolico sta vivendo da anni un forte disagio perché stenta a ritrovarsi nei partiti che attualmente occupano la scena politica e che di fatto mortificano i moderati di tutti gli schieramenti. Nella cosiddetta Seconda Repubblica, ai tempi della esperienza di democrazia maggioritaria (Prodi contro Berlusconi) il bipolarismo costringeva i due schieramenti a privilegiare “il Centro”; anzi vinceva proprio chi conquistava quest’area. Dopo le elezioni del 4 marzo dello scorso anno praticamente il Centro non esiste più, ma prima o poi questo vuoto molti pensano di doverlo riempire. Questa area, che bene o male coincide grosso modo con il mondo cattolico, sta facendo da qualche tempo discutere tanto da suscitare convegni che si vanno organizzando in vari ambienti e su tutto il territorio nazionale, nei quali politici, uomini di cultura e anche di Chiesa si interrogano sulle ragioni di un eventuale impegno diretto dei cattolici in politica.

Di fronte perciò ad un futuro che si presenta assai incerto, molti cattolici – e persino qualche esponente della stessa gerarchia – stanno maturando, rispetto agli ultimi decenni, una posizione nuova, che poi è antica, oltre i partiti attualmente “sulla piazza”. Questo nuovo raggruppamento – si dice – dovrebbe nascere come risposta agli ultimi cambiamenti politici come erede spirituale della vecchia linea politica, che era appartenuta alla Dc, per creare un luogo favorevole al dialogo tra laici e cattolici, nella speranza di essere in grado di offrire a questi ultimi, al suo interno, una presenza non insignificante. Quindi, in ultima analisi, si ripropone, dopo un periodo di riflessione, un’area di Centro come luogo politico per eccellenza dei cattolici.

All’indomani del crollo della monarchia sabauda e del fascismo, il popolo italiano proprio alla Chiesa guardò come primo e stabile riferimento in un grave momento di rinnovamento politico e culturale e, nonostante la Chiesa avesse sempre riconosciuto la libertà di voto dei cattolici, la Democrazia cristiana divenne la più importante forza di governo e, specialmente dopo il Concilio Vaticano II, in Italia essa ebbe un notevole riconoscimento proprio dai vescovi, che divennero l’ago della bilancia della politica italiana.

Questa strategia, vera e propria disciplina politico-pastorale, però, ebbe una rottura con le elezioni del 1994. Allora l’elettorato si schierò in maggioranza a destra o a sinistra, frantumando tutta l’area di centro. Alle elezioni del 1994 i cattolici preferirono lo schieramento anticomunista, ma nel 1996 molte associazioni ecclesiali si spostarono e si posizionarono a sinistra. Questa scelta si rivelò determinante per il successo della coalizione guidata dall’ex Pci.

Questa geografia con l’alternanza trai due schieramenti di centro-destra e di centro-sinistra durò per tutta la cosiddetta Seconda Repubblica e non si limitò, almeno per quel che riguardava il mondo cattolico, alla sola dimensione politica, ma si presentava sopratutto come un’alternativa culturale e persino teologica. Attorno al Polo delle Libertà si raccolse quella grossa fetta di cattolici che aveva chiara l’identità cattolica come unica alternativa alla scelta progressista e postcomunista. Viceversa, nella scelta di “Ulivo” e “Rifondazione comunista” si collocò il cristianesimo legato ad alcune associazioni ecclesiali, veri e propri “cobas” del mondo cattolico, storicamente antiromano con derive protestantiche, poco interessato ai cosiddetti “principi non negoziabili”, impegnato per l’abolizione del celibato ecclesiastico, per il riconoscimento del sacerdozio femminile, per il riconoscimento delle coppie omosessuali, per l’opzione preferenziale degli emarginati e degli immigrati. In sostanza si trattava di un mondo in aperta contestazione al pontefice del tempo (Giovanni Paolo II) e sostanzialmente critico rispetto alla linea dottrinale “ortodossa”. Alcuni vescovi allora invitarono esplicitamente a votare per l’Ulivo e per la sinistra.

Come si vede, oggi la storia si ripete, anche se l’esperienza avrebbe pur dovuto insegnare qualcosa. C’è da domandarsi perciò se l’auspicato nuovo partito possa essere una strada praticabile ed opportuna per risolvere la “questione cattolica”. In realtà non c’è il rischio di creare uno strumento creato in laboratorio, senza alcun radicamento nella società, artificioso e velleitario?

La stessa Chiesa, per la verità, non ha mai invitato sul piano dottrinale all’unità dei cattolici, privilegiando il Centro degli schieramenti politici. Ed è chiaro che far coincidere “tout court” la questione del Centro con la questione dei cattolici è fuorviante se non, addirittura, un misero espediente, un po’ demagogico, che punta soltanto ad avere un riconoscimento di voti in clima elettorale. Anche perché viene da chiedersi perché un’operazione di questo tipo, venga “pensata” e promossa oggi e non quando nella precedente legislatura si portava un attacco senza precedenti alla famiglia, con le unioni gay, alla vita, con la stepchild adoption, l’utero in affitto, l’inseminazione artificiale, l’introduzione di fatto dell’eutanasia, alla scuola con la teoria del gender.

Quali allora sono oggi – dobbiamo chiederci – i rischi che corrono i cattolici che tentino un approccio diretto con la politica e si lancino in un’avventura di questo tipo? Innanzitutto la mancanza di tempo, come giustamente rilevato da Angelo Panebianco sul Corriere della Sera: “non è un’operazione possibile nel giro di poche settimane o pochi mesi”, in vista delle elezioni europee del maggio prossimo. Poi il secondo problema è quello della mancanza di leadership, se ci si guarda in giro non se ne vedono, senza la quale non potrà nascere una nuova identità politica e nemmeno abbozzare una nuova proposta politica al Centro, che sia alternativa a quelle estreme, sulle ali rappresentate da Lega e 5 stelle.

Certamente però il rischio più grande è quello di non trovare più, nemmeno sociologicamente, un’area moderata. Anzi, paradossalmente, piuttosto, di trovarne ai nostri giorni addirittura due, una sul centro-destra con Forza Italia ed una sul Centro sinistra con il Pd, come possibili luoghi del dialogo e della preparazione al cosiddetto nuovo e che invece, rappresenterebbero solamente un maldestro tentativo di ritorno al passato.

Oltretutto in una congiuntura che vede entrambi questi partiti in grandi difficoltà. Ed allora non sarebbe più opportuno e più in linea con l’insegnamento della Dottrina sociale della Chiesa puntare sul rilancio dei corpi intermedi? Di fronte al deserto della rappresentanza intermedia ed al vuoto pneumatico tra potere di vertice, istituzioni, la stessa politica e la base sociale del Paese, va rivitalizzato proprio quello spazio intermedio che sta tra la globalizzazione ed i territori locali con tutti i suoi corpi sociali: famiglia, ordini professionali, associazioni di categoria, le imprese, le associazioni di volontariato, il terzo settore, ma anche le province ed i comuni.

Si tratta, insomma, di fare un grande lavoro per ricostruire la società nella sua dimensione intermedia. Per questo bisogna restare, da un lato, sul territorio e, dall’altro, interpretare gli interessi particolari dei diversi soggetti sociali e politici, evitando di continuare a privilegiare le grandi centrali di rappresentanza e sui partiti, che, peraltro, non esistono più, ed evitando di lanciarsi in avventure azzardate, nostalgiche e prive di concrete prospettive future.



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