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Acqua pubblica, perché la proposta dei 5 Stelle potrebbe innervosire la Lega

La legge sulla ripublicizzazione dell’acqua è quasi pronta per cominciare il suo percorso in Aula alla Camera. Prima però deve passare il vaglio dell’esame in commissione Ambiente, dove si inizierà con la votazione degli emendamenti, probabilmente, da questa settimana.

All’orizzonte però ci sono già tutti i sintomi che la proposta di legge del Movimento 5 Stelle, a prima firma della deputata Federica Daga, crei tensioni neanche troppo velate nel governo, dal momento che la Lega ha sulla materia posizioni diverse. Da un lato la gestione dell’acqua interamente pubblica e non mercificabile, dall’altro l’industrializzazione e un adeguato sistema di recupero dei costi.

Del resto per i pentastellati, che da tempo ripongono grande fiducia su questo provvedimento (l’acqua è pur sempre una delle loro stelle), è una delle proposte fondanti il movimento dai tempi in cui il tema “acqua” è stato cavalcato con il referendum popolare del 2011. Non solo questo, però.

La legge apre così un altro fronte di attrito all’interno della maggioranza, e si incasella esattamente nel quadro di quei provvedimenti “bandiera” per le due componenti del governo. Insieme al dire “no” al Tav e all’arrivo del reddito di cittadinanza, per il Movimento può essere utile sventolare questo “nuovo” vessillo prima delle elezioni europee, sia pure nella forma di una semplice approvazione in prima lettura in un solo ramo del Parlamento. È per questo che, tra le altre cose, il testo – che gode del sostegno, manifestato in diverse occasioni, di Roberto Fico e del ministro dei Rapporti con il Parlamento Riccardo Fraccaro – si immagina possa avere vita relativamente facile alla Camera, per poi rimanere impantanato nelle sabbie mobili del Senato.

Le cose come stanno adesso, ci raccontando di un servizio che oggi può essere gestito dall’ente locale (in modo diretto) oppure con affidamento a una società interamente pubblica, a una privata o a una mista pubblico-privata. Al termine dell’affidamento, il gestore deve trasferire le infrastrutture al Comune o al nuovo gestore, che riconosce gli investimenti sostenuti non ancora rimborsati dal sistema tariffario. In Italia, il 97% della popolazione è servito da soggetti a matrice pubblica: 85% da società totalmente pubbliche o a maggioranza di controllo pubblica; 12% da Comuni che gestiscono direttamente il servizio; l’1% da società miste a maggioranza privata, il 2% è servito da società interamente private.

La pdl – che quando è stata assunta come testo base in commissione Ambiente alla Camera (ha infatti gareggiato con un’altra pdl, quella della deputata del Pd Chiara Braga) è stata accolta al grido di “una vittoria della democrazia” – ha ricevuto oltre 250 proposte di modifiche. Da questa settimana si dovrebbe procedere con l’esame degli emendamenti. Anche se ad una prima idea di accelerazione si è sostituita la volontà di continuare con più calma. Probabilmente per trovare una quadra interna ed evitare lacerazioni pubbliche nella maggioranza, dal momento che alcuni emendamenti presentati dal Carroccio, sostanzialmente con un paio di mosse (tra l’inserimento di virgole e termini dettagliati sulla gestione ‘pubblica’ e la mercificazione dell’acqua), smontano la struttura stessa del provvedimento, snaturando il suo disegno originario, tutto incentrato all’idea dei movimenti per l’acqua pubblica.

Nella partita da giocare, la Lega deve poi tener conto di altre due questioni. La prima è la necessità di ottenere adeguate garanzie di non esporre il Paese, nell’attuale frangente storico, a ulteriori rischi sul versante dei conti pubblici per via di alcune possibili ripercussioni economiche in particolare legate alla gestione del servizio, e per esempio alla possibilità che a dover pagare le spese debba essere la fiscalità generale (qualcosa che significherebbe dover dire agli italiani che ci saranno “nuove tasse”). Cosa che, se approvate, le norme contenute nella pdl potrebbero riflettere: secondo una ricerca di Oxera – messa a punto per Utilitalia (la Federazione delle imprese di acqua ambiente e energia, che riunisce la quasi totalità dei gestori del ciclo idrico) – il potenziale impatto di questa legge potrebbe essere di oltre 15 miliardi (partendo da un minimo di 14,6 miliardi a un massimo di 16,5 miliardi di costi una tantum, per esempio per gli indennizzi sulle mancate concessioni, cui si devono aggiungere da un minimo di 4 a un massimo di 6 miliardi all’anno). La seconda questione è un nodo politico che ha sì carattere locale ma che per la Lega si traduce in un risvolto nazionale: è fondamentale non deludere gli amministratori dei Comuni del nord che, preoccupati dal provvedimento, fanno notare come gli effetti maggiori si avrebbero proprio dove il servizio idrico funziona meglio.

Per dipanare la matassa, in cerca di una mediazione, sono già in corso incontri tra gli emissari dei due schieramenti; per il momento si è soltanto ottenuto da parte pentastellati un’apertura alla “valutazione” delle proposte e, allo stesso tempo, sul fronte leghista un “rallentamento” dello scenario ipotizzato per il provvedimento, che lo avrebbe voluto pronto per approdare in Aula già nella prima settimana di marzo. La questione, per il peso che riveste e “bandierine” da sventolare o meno in campagna elettorale, dovrebbe arrivare sul tavolo di Matteo Salvini e di Luigi Di Maio; e come se non bastasse, qualora dovessero essere i due vicepremier a dover bilanciare i valori in campo, viene facile immaginare che la partita potrebbe spostarsi su altri terreni ed essere amplificata dalla discussione in corso sulla autonomia differenziata.

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