Per come gira la politica in Italia, tra il fragore perentorio delle dichiarazioni al tiggì, sveltamente smentite dal tiggì successivo, e la scia liofilizzata della comunicazione digitale, potrebbe apparire un azzardo affermare che i Cinque Stelle sono ad una svolta. Magari tra due giorni si rismonta tutto e si torna alla forma eterea (da “etere”) da cui sono partiti. Epperò questa cosa della “forma-partito”, con tanto di organizzazione che prende ispirazione dalle usate e vituperate tracce della prima repubblica, non va liquidata frettolosamente.
Già il M5S di governo è lontano parecchio dal movimento delle origini: non più antagonista ma giustificazionista ( provate ad immaginare cosa sarebbe stata la “guerrilla” in rete contro un Salvini ministro dell’interno che fa e dice le cose che fa e dice, se non fosse stato un alleato..); non più duro e incontaminato nell’azione parlamentare ( “o vinciamo noi e ci prendiamo il governo oppure all’opposizione: mai alleati con nessuno”); non più nello schema “uno vale uno” e dunque ognuno è intercambiabile ed è solo “portavoce” del popolo: oggi serenamente accomodati nel “munus” ( inteso anche come “remunerazione”) che li fa chiamare onorevoli e senatori. Insomma il partito di governo, che ha le sembianze rassicuranti del taglio di sartoria napoletana di Di Maio e Conte, prende il sopravvento sul movimento che lotta, temporaneamente aggrappato al descamisado e maduriano Di Battista.
Il partito: due cose hanno rilevanza nell’annunciata rivoluzione organizzativa dei Cinque Stelle. La prima è l’organizzazione territoriale. È questa la vera rivoluzione, perché suppone una struttura orizzontale, leadership locali e la necessità di forme di legittimazione che non derivino solo dalla cooptazione fatta dall’alto. Insomma: un ceto dirigente. Un partito che abbia l’ambizione di durare non può affidare il suo futuro solo all’opinione del pubblico, ma deve fidelizzare il suo popolo attraverso la militanza. E la militanza implica luoghi, interfaccia non solo digitali ma fisici, leadership. Implica anche impegno di spesa: le sedi, le manifestazioni, gli strumenti di collegamento. Il ceto dirigente locale, in un sistema politico italiano in cui la scelta della rappresentanza sul piano locale è affidata al voto di preferenza, mentre quella del parlamentare è figlia delle liste bloccate ( e dunque dei capi), gode di una legittimazione democratica assai più ampia. Tale da rafforzarlo nella dialettica con i dirigenti nazionali. Secondo rilevante aspetto: le alleanze. C’è poco da fare, se si accetta l’idea dell’alleanza con altre forze diverse dai Cinque Stelle, si accetta anche l’ipotesi dell’autodeterminazione sul piano locale e della partecipazione a governi locali di colore politico diverso. Insomma un Cinque Stelle patchwork.
E allora, se davvero siamo alla svolta, prepariamoci a vedere un Movimento che si fa partito e perde brandelli di diversità, facendosi un po’ più uguale ad altri. In fondo sarebbe il tramonto del politico dilettante e l’alba del politico di professione. Un modo per celebrare Max Weber a cent’anni dalla famosa conferenza di Vienna “Politik als Beruf”, che tenne il 28 gennaio 1919. Ove “beruf” vuol dire “professione” ma anche “passione”.