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Delitti d’onore, quando la giustizia ingiusta non c’entra un bel niente con la lotta tra i sessi

delitti

Sono vicende diverse ma con un filo conduttore. Delitti passionali che portano con sé il sapore, amaro, del delitto d’onore. La condotta sessuale della vittima diventa l’attenuante delle responsabilità dell’aguzzino. A Genova un giudice dimezza la pena a 16 anni che, tra sconti ed automatismi, si ridurranno a una decina effettivi. A Bologna stesso copione verso un omicida preda di una “soverchiante tempesta passionale”.

Va da sé che non esistono delitti passionali privi di una componente emotiva, ma soprattutto suscita indignazione l’idea che, all’alba del terzo millennio, i tradimenti reiterati di una donna possano essere valutati dal giudice come attenuante e non invece aggravante di un assassinio commesso per motivi futili e abietti. Se la legge non deve farci la morale, allora la condotta sessuale della vittima, forse deprecabile sul piano morale, non dovrebbe mai diventare la base giuridica per attenuare le responsabilità di un assassino.

In uno stato di diritto i peccati di una moglie fedifraga possono condurre al massimo al divorzio, non già alla morte per assassinio. Il problema non è il giudizio abbreviato: i riti alternativi vanno incentivati perché velocizzano la macchina giudiziaria. Pur con l’abbreviato, se il giudice avesse comminato l’ergastolo, il colpevole si sarebbe beccato 30 anni, non 16.

Il problema è l’interpretazione togata, l’eccessiva discrezionalità che consente a un magistrato di emettere verdetti semplicemente incomprensibili. Riecheggiano sinistramente i princìpi del delitto d’onore, la concezione della donna come soggetto di serie b.

Qualcuno sostiene scioccamente che il genere femminile non avrebbe di che preoccuparsi poiché a Genova la decisione l’ha presa un magistrato donna. In realtà, questa circostanza è l’ennesima conferma che la giustizia ingiusta non c’entra un bel niente con la lotta tra i sessi: è questione di diritto, non di politicamente corretto.


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