In queste ultime settimane, numerosi commentatori economici sono parsi distratti rispetto all’andamento del commercio mondiale. Anche in Italia dove è in corso di preparazione il Documento di economia e finanza (Def) e, dato che siamo un Paese trasformatore e manifatturiero, la crescita (o la stagnazione oppure anche il declino) dipendono in larga misura dalle esportazioni e, quindi, dal commercio mondiale.
In questi giorni, due news dovrebbero avere dato la sveglia: la pubblicazione, il due aprile, del rapporto annuale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc) ed il tre aprile, l’inizio a Washington di quella che dovrebbe essere la tornata finale dei negoziati commerciali tra gli Stati Uniti e la Repubblica Popolare Cinese. I due eventi sono strettamente connessi in quanto ove la trattativa tra Usa e Cina non avesse esiti positivi e ne risultasse una guerra o guerriglia commerciale estesa al resto del mondo, il commercio mondiale ne soffrirebbe.
Nel ponderoso e – come sempre – molto analitico rapporto Omc, le previsioni di crescita del commercio mondiale nel 2019 vengono abbassate dal 3,7% al 2,6%, a ragione non solo del rallentamento generale dell’economia mondiale ma anche dalla minaccia di dazi e superdazi, una minaccia “che può avere effetti reali aumentando l’incertezza e scoraggiando gli investimenti”. Questa volta, il documento include una sezione in cui si simulano vari scenari degli effetti di guerre e guerriglie commerciali su economia ed interscambio: nello scenario peggiore, un conflitto su scala mondiale, e quindi un rilancio del bilateralismo porterebbe ad una contrazione di due punti percentuali del Pil mondiale ed un tracollo del 17% degli scambi commerciali internazionali. Paesi trasformatori e manifatturieri come l’Italia sarebbero tra i più colpiti. Anche per questo motivo, le trattative in corso a Washington hanno per noi un’importanza cruciale.
La delegazione cinese, guidata dal vicepremier Liu He, ha portato due doni alle controparti americane: i) le auto Usa (e le loro componenti) verranno esentate dai dazi introdotti nella Repubblica Popolare l’anno scorso nei momenti di maggior tensione della guerriglia commerciale; ii) sono state concesse a due banche d’investimento americane (J.P. Morgan e Nomura) le licenze per operare alla Borsa cinese. Il negoziato commerciale comprende anche gli investimenti e la operatività delle imprese Usa in Cina.
Sembra si sia vicinissimi all’accordo (che bloccherebbe la guerra commerciale) anche se gli Usa vogliono mantenere alcuni dazi sino a quando la Cina non interrompe le prassi di copiare brevetti e pirateggiare tecnologie.
Non si è risolto ancora però un nodo di fondo, identico a quello che ha caratterizzato gli accordi tra Roma e Pechino in merito alla Via della Seta. Da un lato, Washington, ancor più di Roma, vuole incoraggiare la trasformazione della Cina in economia di mercato, come i cinesi si sono impegnati al momento della loro adesione all’Omc nel 2001 a Doha. Da un altro si vuole accesso al mercato di quello che fu il Celeste Impero; ciò comporta, però, accordi con i “giganti” statali cinesi, allontanando le prospettive di rendere la Repubblica Popolare un’economia di mercato. Un trilemma impossibile.