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Cina, la crisi che non c’è e la distribuzione del reddito

La composizione dei beni e servizi consumati attualmente è rimasta approssimativamente quella del secolo passato se non addirittura – salvo migliorie anche importanti – della prima fase della rivoluzione industriale.

La rivoluzione post-industriale affermatasi nel secondo Novecento ha portato a nuove esigenze e a una nuovo tipo di domanda, oggi satura anch’essa perché ingabbiata in uno stile di vita e in un contesto spaziale che è rimasto quello di un tempo. C’è di conseguenza una sovraccapacità produttiva a livello globale. La stessa Cina che è assurta a simbolo della crescita rapida in questi decenni soffre di un modello di sviluppo oramai insostenibile. Circa metà del suo prodotto interno lordo è rappresentato da investimenti.

Secondo Goldman Sachs lo stock di capitale accumulato dai cinesi in rapporto al PIL supera di gran lunga quello dei paesi europei ed è simile a quello statunitense, mentre al contempo – come scrive il Fondo Monetario Internazionale – il potenziale produttivo cinese è sfruttato appena al 60 % e molti settori registrano perdite (aeroporti) o soffrono di bassi profitti (acciaio) o ancora di crescenti stock di invenduto (automobilistico).

La redistribuzione del reddito può costituire una via per saturare meglio, con una appropriata politica che favorisca chi ha maggiore propensione ai consumi, l’eccesso di offerta di beni e servizi. Ma è un processo lento che, se attuato troppo rapidamente, porta a tensioni sociali intra-statali o a tensioni fra Stati come sta dimostrando la crisi dell’area euro e il braccio di ferro fra paesi con deficit e debiti pubblici più contenuti e paesi maggiormente gravati dal debito pubblico. Va inoltre ad intrecciarsi con le problematiche tipiche di un mercato finanziario oramai cresciuto a dismisura e non più governabile con gli attuali strumenti a disposizione delle banche centrali.

Sintesi di un articolo più ampio che si può scaricare qui



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