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Europa, per l’Unione non è ancora troppo tardi

Europa

“Europa, se non ora quando?” Domandò provocatoriamente alla platea il presidente emerito Giorgio Napolitano durante la conferenza su “L’Europa nell’ordine mondiale”, organizzata dall’Ispi a Roma. Era il 25 novembre 2015. Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti. Tuttavia quell’interrogativo resta d’ attualità. Soprattutto in vista delle elezioni europee dove un’ondata di populismo rischia di far vacillare il progetto dell’Unione. Per di più con l’Italia che rappresenta il ventre molle del Vecchio continente per effetto del suo pesante debito, della crescita che non c’è e di un sistema bancario ancora debole.

“La Via della Seta ha messo in luce le divisioni europee – spiega in un report l’economista francese Daniel Gerino, presidente e direttore generale della società di gestione indipendente, Carlton Sélection –. Nell’attesa – di un’Europa coesa – la Cina sposta in avanti le sue pedine in Europa, estendendola ai porti italiani. Allo stesso tempo, Roma annuncia che potrebbe lanciare i Panda bond destinati agli investitori cinesi. In questo modo, l’Italia ipoteca la sua indipendenza senza che la Commissione europea, alle prese con la Brexit, reagisca. È una vicenda che la dice lunga sulla debolezza e sulle divisioni fra gli Stati europei di fronte all’appetito della potenza cinese. Visto che lo Stato italiano ha bisogno di liquidità a breve termine, accetta un finanziamento dalla Cina che, non contenta di aver già conquistato il porto del Pireo in Grecia, rafforza la sua influenza sul Vecchio continente”.

Tuttavia, per l’esperto francese, non tutto è perduto. Anche a dispetto di un incerto esito elettorale europeo, la politica comunitaria non potrà ignorare il fatto che un’Europa più integrata possa ancora ritagliarsi un ruolo di primo piano nello scacchiere internazionale. “L’Europa ha ancora tutte le carte in mano per preparare un altro avvenire” riprende l’economista che propone un parallelismo storico. “A partire dalla metà degli anni ’60, il governo francese, sotto l’impulso di Georges Pompidou, all’epoca primo ministro del generale de Gaulle prima di succedergli nel 1969, ha saputo impegnarsi in progetti infrastrutturali molto ambizioni (le centrali nucleari, i treni ad alta velocità…) che hanno permesso alla Francia di diventare una nazione industrialmente di primo piano a partire dagli anni ’70 – ricorda Gerino -. Su scala comunitaria, Airbus è stata lanciata ufficialmente nel 1967 e rappresenta ancora oggi una delle esperienze industriali meglio riuscite nel Vecchio continente. Oggi non mancano i cantieri a dimensione europea: le autostrade dell’informazione, le infrastrutture telecom, il 5G e lo sviluppo dell’energia fotovoltaica… Ma la volontà politica resta al di sotto di questi bisogni”.

Per questo, secondo l’esperto, il piano Juncker, che prevede 335 miliardi di investimenti, va nella giusta direzione. Anche se, in realtà ci sarebbe bisogno di un pacchetto di investimenti ben più corposo che possa persino superare i mille miliardi di euro. “Le nostre regole budgetarie non lo permettono? – prosegue Gerino -. Una soluzione si potrebbe trovare nel distinguere le spese di funzionamento (…) da quelle che preparano l’avvenire. Basterebbe che l’Unione si concentrasse su una dozzina di progetti di ampio respiro, lasciando gli altri, meno rilevanti, agli Stati”. Per l’economista, insomma, se non si vogliono fare gli “Stati Uniti d’Europa”, bisogna almeno mettere fine ad una “concorrenza fiscale e sociale deleteria all’interno dei diversi Paesi dell’Unione”. “L’armonizzazione della fiscalità è la premessa ad ogni tipo di fiscalità europea degna di questo nome – conclude –. Il periodo di transizione, che sarà delicato per alcuni Paesi, potrà essere finanziato attraverso un vero “piano Marshall” con l’aiuto della Bce”. In sintesi, un progetto ambizioso all’altezza delle sfide del 21esimo secolo.


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