Oggi in Israele si vota. Il risultato che uscirà dalle urne è pieno di implicazioni per le popolazioni dell’area (non solo per quelle dello “Stato Ebraico”, quale è la più recente definizione della Repubblica) ma anche per noi.
I sondaggi affermano che si preannuncia un testa a testa tra il premier uscente Benjamin Netanyahu, che chiede un quinto mandato (anche per evitare un ormai imminente procedimento giudiziario per corruzione) e l’ex generale dell’esercito israeliano Benjamin Gantz. Nella campagna elettorale, entrambi i candidati hanno ignorato il tema della Palestina e non intendono rasserenare il clima di tensione. Gantz – occorre ricordare – era alla guida dell’esercito nell’estate del 2014 quando nella striscia di Gaza vennero uccisi migliaia di civili considerati “terroristi” di cui, secondo una fonte non sospetta (l’ente non profit israeliano B’Tselem), 500 minori e bambini.
Dati i trascorsi dei due contendenti, i commenti su gran parte della stampa italiana sottolineano come sia indifferente chi vince. Per gli israeliani e per i palestinesi, nonché per noi.
Non sono d’accordo. Non solo l’alternanza (anche tre due forze politiche conservatrici) è il sale della democrazia ma è auspicabile che data la pesantezza delle accuse, Netanyahu venga sottoposto a giusto processo, anche per l’onorabilità del suo partito e dei suoi sostenitori. Soprattutto, è necessario che dopo cinquanta anni del “Piano Rogers” (dal nome dell’allora Segretario di Stato americano) che prevedeva il ritorno di Israele nei confini approvati dalle Nazioni Unite nel 1948 entro il 1971-72, che si disegni un nuovo assetto della regione. Senza un nuovo assetto che tenga in adeguato conto le esigenze dei palestinesi, l’area continuerà ad essere una miccia esplosiva nel Medio Oriente al pari quanto la Libia lo è nel Nord Africa. Insieme, stanno infiammando l’intera area del Mediterraneo, con gravi implicazioni per l’Italia.
Tra l’estate del 1970 ed il Natale del 2016 sono stato più volte in Israele, Palestina, Giordania, Libano ed Egitto sia per il mio lavoro per la Banca Mondiale e per l’Organizzazione Internazionale del Lavoro sia in visite (e pellegrinaggi) privati. Ed ho assistito, nell’arco di quasi cinquant’anni, ad un continuo deterioramento della situazione. D’altronde, mentre nel 1969, William P. Rogers prevedeva un ‘ritorno alla normalità’ entro 18-24 mesi, oggi il suo successore Mike Pompeo ha tracciato, in una audizione al Congresso Usa, un orizzonte temporale di oltre vent’anni. Non credo che il Medio Oriente e l’Europa possano attendere tanto a lungo.
Dalla mia prima missione per la Banca Mondiale (avevo 28 anni) ad oggi, la situazione è deteriorata gradualmente ma continuamente; un peggioramento che si è aggravato negli ultimi vent’anni, durante i quattro mandati di Netanyahu. Allora (ossia nel 1970), uno dei problemi centrali era quello dei rifugiati palestinesi (in seguito alla guerra del 1967) gestiti in gran misura dall’agenzia delle Nazioni Unite Unrwa, ma si delineava una situazione politica che avrebbe permesso un ripristino della normalità nell’area. Al “Piano Rogers” hanno fatto seguito gli “Accordi di Camp David” e quelli ‘di Oslo’, tutti disattesi.
Nel frattempo, Israele ha spostato la propria capitale a Gerusalemme, occupandone la parte orientale, lo Stato di Palestina è stato creato (e riconosciuto da 137 Stati membri dell’Onu ma non da 50, tra cui, oltre ad Israele, anche l’Italia) ma non solo è privo di una struttura statuale ma a ragione di ‘insediamenti’ israeliani, muri, posti di controllo è poco più di un Bantustan a macchie di leopardo (come quelli che esistevano un tempo in quella che ora è la Repubblica di Sud Africa) e la ‘striscia di Gaza’ è diventata una prigione a cielo aperto. Il programma di Netanyahu consiste nell’estendere ulteriormente il territorio di Israele immediatamente alle alture del Golan e con nuovi insediamenti nella Cisgiordania.
Anche dal punto di vista delle esigenze di Israele, è un programma miope (quale lo fu quello dei Bantustan in Sud Africa): un’annessione strisciante della Palestina porrà il problema della democrazia all’interno dello Stato e renderà più forte l’animosità del resto del Medio Oriente. Netanyahu conta molto sul suo rapporto personale con Donald Trump. Altra miopia perché l’intellighenzia ebraica americana lo sta abbondando: ad esempio, l’articolo di apertura della prima pagina del New York Times – International Edition già dal titolo denunciava la “sedicente democrazia” di Israele. In Europa, The Economist, che non può essere tacciato di essere filo-palestinese o filo-arabo, ha dedicato un numero recente a Re Netanyahu – la parabola di un moderno populista.
A mio avviso, dato che nel medio e più ancora nel lungo termine, la demografia determinerà l’assetto della regione, l’unica soluzione pacifica possibile è quella di due Stati ed un assetto internazionale per Gerusalemme, città sacra per le tre maggiori religioni monoteiste (ebraismo, cristianesimo, islam). Un’ulteriore vittoria di Netanyahu allontanerà questa prospettiva ed infiammerà gli animi sia nell’area sia nei Paesi vicini. Con gravi ramificazioni anche per l’Italia.