Se proprio devo odiare – attività del processo emozionale che proprio non mi prende – sceglierò di odiare la retorica. La fabbrica del vapore sul letto del nulla infinito. Odio tutte le retoriche, i barocchismi paonazzi dei petti riempiti d’aria per raccontare il poco che c’è ai piani di sopra, dove dovrebbe aver sede (ma talvolta ha traslocato) il cervello. Detesto le indefettibili certezze dell’ottusità fascista, che non è, purtroppo, consegnata alla storia cattiva del Novecento italiano ed europeo, ma vive e lotta e fa male intorno a noi. Non sopporto i mantra del politically correct, striati di parole d’ordine à la page e buonismi ideologici poco praticati di persona. Non arrivo a citare il sommo Battiato quando dice (“Un centro di gravità permanente”, 1981): “Non sopporto i cori russi, la musica finto rock, la new wave italiana, il free jazz punk inglese” ma se me lo chiedesse qualcuno dichiarerei la mia adesione alla prosa riottosa del musicista etneo.
Ma il 25 aprile non c’entra. Il 25 aprile, fuori dell’iconografia praticata dal Pci degli anni che furono – che qualche ditata di retorica per auto-attribuzione esclusiva l’ha provocata – è un momento che come pochi costituisce l’identità collettiva di questo Paese. Intanto perché la Resistenza, che salvò la faccia degli italiani e la dignità di popolo di fronte alla storia, fu un fatto corale e non ascrivibile ai soli comunisti. C’erano cattolici, liberali, repubblicani, socialisti, persino monarchici, che presero le armi per difendere quel che restava dell’Italia dal nazifascismo. Erano soprattutto giovani: una generazione di ribelli, di martiri e di costruttori che accesero quella scintilla necessaria tra pensiero e azione, forse meno viva tra le generazioni più avanti con gli anni. Per capire quanto la nostra storia di italiani debba ai giovani basta fare un viaggio nella toponomastica delle nostre città e dare un’occhiata ai nomi degli eroi risorgimentali e della resistenza: ragazzi che non arrivavano ai trent’anni.
E questo già sarebbe un bel motivo per scuotersi dal torpore di celebrazioni senza emozione. Ma c’è di più. Molto di più. In questa Italia smemorata e superficiale può accadere di ascoltare nel solito talk televisivo un vice presidente del Consiglio che – in ammirevole e buonissima fede – dice della necessità di celebrare il 25 aprile per far piacere ai nonni e ai papà e ricordare Berlinguer e la questione morale (?), e fa capire così quanto importante sia tornare a parlare di resistenza e di antifascismo. In un tempo, come quello odierno, in cui si sniffa fascismo liofilizzato in un’aria malsana. Non c’è da commentare troppo il gesto dell’altro vice e sodale di contratto di governo, politico come pochi ammaestrato a maneggiare simboli, che ostentatamente snobba ogni manifestazione celebrativa, facendosi così esso stesso simbolo ambiguo di fronte a questo momento.
Che dire? Forse fu un peccato che i Padri della Patria non riuscirono a mettere in Costituzione il diritto di resistenza, come ce l’hanno i tedeschi. Forse oggi avremmo da far riferimento tutti a quella norma di salvaguardia per respirare l’aria pulita di un 25 aprile di 74 anni fa.