Ci sono parole nel linguaggio italiano che diventano improvvisamente abusate o termini retorici senza un riscontro oggettivo nella realtà. Fare le riforme è lo slogan di tutte le forze politiche e non. Quasi un intercalare che riempie il vuoto silenzioso di chi non sa che dire. Ma quali riforme? In che modo? Con che logica? Con quale criterio?
Tutti si affrettano a dirsi riformisti. Non tanto coloro che hanno letto e comprendono quanto meno il significato proprio e storico del termine, ma anche i noti o nuovi sulla scena che del riformismo non sanno nemmeno la ragione e la ragionevole identità. In questo quadro, fa piacere che autorevoli autori, come Carlo Patrignani, analizzino da molto vicino le vicende che ruotano intorno a questo tema riportando esempi di italiani che ne hanno fatto un motivo della loro azione politica, economica e sociale per il bene del Paese troppo da riforme concrete.
Paolo Bagnoli sul punto è intervenuto con una lucida analisi che in breve racchiude tutte le contraddizioni del termine ”nella lunga storia del suo uso la parola riformismo ha assunto significati diversi rispetto ai contesti storici nei quali è stata adoperata. Per lo più, se volessimo fare un velocissimo esame comparativo in sede storiografica e tenuto conto che essa viene adoperata in riferimento a strategie diverse – per cui esiste un riformismo conservatore, uno liberale, uno del dispotismo illuminato, socialista o socialdemocratico e potremmo continuare a lungo – pur tuttavia, in ogni caso di ogni particolare uso si intende una prassi politica relativa a programmi e misure concrete di governo tali da produrre risultati significativi ed incisivi.
Oggi, però, nei tempi presenti la parola ha distillato la definizione storiografica restringendola concettualmente nel traguardarla solo alla sfera del governo: il riformismo, cioè, come pratica di governo capace di tenere insieme il sistema; certo operando delle innovazioni, ma non tali da modificarlo strutturalmente sempre attenti a non provocarne rotture profonde. Ed, infatti, essa viene usata da tutti più per non dire che, viceversa, ha sostanzialmente perso di significato ideologico tanto che, se ci facciamo caso, dopo aver avuto un grande successo nei tempi andati più recenti, oggi viene usato con parsimonia, ma non con minore equivocità.
Come non accennare, per limitare il campo, agli anni della programmazione economica e della nota aggiuntiva quando si pensava ad un’Italia diversa intrisa di quel bagaglio ancora fresco di Costituzione che poneva al centro dell’attenzione lo sviluppo della nazione attraverso quei processi di razionale miglioramento nelle strutture e di conseguenza della libertà, uguaglianza, giustizia sociale, lavoro, benessere e della qualità della vita delle persone.
In fondo i veri riformisti oggi sono in piena solitudine circondati soltanto dalla loro autenticità e certamente dalle loro utopie che ne fanno dei sognatori in tempi in cui il vento sembra soffiare da un’altra parte. Il Paese sta rotolando e non si sa verso dove, con una deriva costante che principia anzitutto nelle istituzioni per poi scadere nella politica del pressapochismo che non riesce a programmare nemmeno un ordine del giorno.
Un tempo – evidenzia Patrignani – essere riformisti e volere le riforme di struttura o strutturali, era il modo d’essere – per cultura e quindi per agire politico – di una certa sinistra, quella più ‘eretica’ ed ‘autonoma’ che ha avuto quali indiscussi protagonisti Riccardo Lombardi, Bruno Trentin, Lelio Basso, Vittorio Foa e il 94enne Pietro Ingrao.
Nomi ai quali aggiungerei quelli di Antonio Giolitti, Giorgio Ruffolo, Paolo Sylos Labini e, anche in molte occasioni, Giorgio Fuà e Luigi Spaventa.
Lo stesso Ruffolo ci ricorda che “diversamente da altri Paesi occidentali, in Italia la programmazione ha assunto fin dall’inizio una veste apertamente politica come supporto di un programma di riforme diretto a combattere squilibri economici e disuguaglianze sociali senza alcuna pretesa di neutralità”.
Ecco perche per ridare senso e significato a riforme e riformista occorre ripartire dall’eredità del clima ricco e vivace della Programmazione per l’esplorazione del domani. E, allo stato, gli “attori” non vanno cercati all’interno delle istituzioni ma all’esterno chiamando all’appello coloro che – autenticamente riformisti – possano dar vita all’organizzazione di proposte tangibili che possano far ripartire l’Italia su basi concrete e non solo statistiche o sterili. Lo stesso Lombardi con la consueta chiarezza allargava il campo alla società dicendo che i partiti sono solo degli strumenti per realizzare degli ideali o dei progetti politici: sono importanti, ma non sono l’assoluto
Anche perché, se la storia si ripete, come non pensare ancora a Ruffolo quando afferma “la diagnosi essenziale che il Piano dava del momento storico del Paese e la rappresentazione dei suoi problemi era giusta. Non sono gli errori dei programmatori che hanno praticamente affondato il Piano come guida dell’azione di governo. Fu la disattenzione dei partiti, l’ostilità dell’amministrazione, la contestazione delle grandi organizzazioni imprenditoriali e, in parte,sindacali. Insomma, eravamo circondati”.
Il ‘riformismo’ si porta dietro un’ambiguità che risale alla sua nascita, cioè l’opposizione sia alle dottrine rivoluzionarie sia alle idee conservatrici.
Ma l’idea centrale dei nostri “vecchi” maestri – sottolinea Daniele Castelnuovo – è stata sempre di tendere a far scomparire le barriere di classe con la promozione sociale, l’educazione, la partecipazione alle decisioni e anche un progressivo aumento del reddito, del benessere e della ricchezza a spese di chi ha di più di tutto questo per qualche ragione, perfino anche per ‘merito’. Su questo punto merita una menzione speciale anche il caro e attuale Federico Caffè.
Da questo punto di vista, ciò che li distingue dai rivoluzionari sono: l’avverbio “progressivamente” e la persuasione che non c’è ‘la rivoluzione’ che ‘cambia il corso della storia’ portando l’umanità verso ‘il sol dell’avvenire’.
Per la conclusione di questa riflessione, per rimanere in tema, si prende in prestito una semplice frase di Paolo Sylos Labini e di Giorgio Fuà estratta dal libro Idee per la programmazione economica “ma siamo convinti che ormai è necessario uscire dalle formulazioni vaghe e polivalenti e fornire indicazioni precise per avviare la discussione su linee, appunto, precise”.
Dunque, oggi più che mai non servono formule magiche o tecnicismi avventati. Serve una nuova stagione riformista con quanti hanno davvero a cuore questa parola e soprattutto il bene del Paese. Come? Ripartendo da ciò che è stato costruito e non distrutto. Leggasi: Programmazione con quel buon senso oggi mancante per un reale benessere sociale.
Il riformista, in fondo, è un portatore sano di cambiamento strutturale. Ed è ben consapevole che, a titolo esemplificativo, una riforma dell’istruzione non significa solo costruire scuole ma costruire la scuola per il futuro (migliore) delle generazioni.