Nel nostro Paese le lobbies sono il motivo del fallimento delle politiche riformiste. E sono lo strumento dei grandi interessi privati per salvaguardare i loro privilegi o agevolare i loro affari. Affermazione forte che pare essere condivisa da tutti: dal mondo istituzionale, dai media, dall’opinione pubblica. Ma allora perché non si è mai provveduto in tanti anni a regolarne le attività?
I tentativi, più o meno seri, negli ultimi venti anni non sono mancati anche se per lo più si trattava di proposte di legge di iniziativa parlamentare con poche speranze di essere approvate. Si è riusciti, invece, nella scorsa legislatura ad approvare un articolo di legge che lascia ampi margini per interpretare l’attività del lobbista come un mediatore di affari e di “traffici” di influenze. Insomma, un intervento normativo in linea con il pregiudizio di cui sopra. Un pregiudizio in gran parte solo italico.
Il Parlamento Europeo ha iniziato qualche anno una riflessione sul tema. La premessa culturale che ha guidato “l’elaborazione di un quadro per le attività dei rappresentanti di interessi (lobbisti) presso le istituzioni europee” è quanto di più distante ci sia dall’impostazione italiana: il Parlamento riconosce che i “rappresentanti di interessi (lobbisti) svolgono un ruolo essenziale nel dialogo aperto e pluralistico su cui si basa ogni sistema democratico e rappresentano una fonte di informazione per i deputati del Parlamento nell’esercizio del loro mandato”.
E proprio per l’essenzialità di questo ruolo si riconosce – come lecita – “l’influenza esercitata dai gruppi d’interesse sulle decisioni dell’Unione Europea e si sottolinea che l’accesso trasparente e paritario a tutte le istituzioni europee rappresenta una condizione sine qua non per la legittimità dell’Unione e che tale accesso paritario accresce le competenze a disposizione per gestire l’Unione.”
In Italia pensiamo che le lobbies siano un ostacolo ad una legislazione efficiente, in Europa pensano che siano indispensabili e utili.
La differenza è tutta nell’approccio: da un lato la convinzione che solo il dibattito tra interesse privato e pubblico porti a quadri normativi fair, applicabili ed efficienti e, soprattutto, che la politica sia in grado di gestire questo dibattito in totale autonomia di giudizio. Dall’altro lato, in Italia, l’idea che fingendo che il fenomeno non esista, anche le lobbies non esistano e dove esistono sono solo un ostacolo allo svolgersi del confronto democratico. Invece esistono, partecipano, influenzano. Giustamente.
Le elezioni di febbraio ci hanno consegnato un Parlamento che dovrebbe essere ancora più attento ai temi della trasparenza e del lobbismo. La paura è che il loro approccio sia ideologico e non tenga conto di un’altra importante premessa culturale fatta propria dall’Unione Europea e cioè che la “trasparenza è un percorso a due sensi necessario sia nel lavoro delle stesse istituzioni che tra i gruppi d’interesse”. Il pericolo, da noi, è che si vogliano, invece, normare solo i lobbisti dimenticandosi dell’altra faccia della medaglia.
Per quanto riguarda le cose da fare alcune sono vecchie altre possono essere nuove e innovative. Tra le prime la necessità di istituire un registro pubblico dei lobbisti dove siano indicati i fatturati realizzati grazie alla rappresentanza di interessi, una stima dei costi associati all’attività diretta di lobbismo e per conto di chi viene svolta una specifica attività. Insieme al registro la definizione di un codice etico. Ci sono modelli a Bruxelles e a Washington, non è difficile prenderne il meglio e applicarlo in Italia. Per questi interventi ci vuole una legge.
Ma è giusto provare ad andare oltre e guardare alla necessità di modificare gli iter legislativi partendo dal presupposto che i testi di legge vanno costruiti insieme alle parti interessate e non contro o nonostante.
Oggi, infatti, le leggi sono pensate negli uffici dei ministeri con poco o nullo contributo – parlo di contributo trasparente e pubblico – da parte dei gruppi di interesse. Lo strumento esisterebbe anche ed è quello dei tavoli tecnici ma sui loro lavori e contenuti – quando realmente esistono – cala il sipario del silenzio e dell’assenza di qualsiasi pubblicità. In Europa i funzionari della Commissione Europea istituiscono seminari di lavoro – che durano anche giorni – con tutti i gruppi di interesse registrati e i cui contributi sono opportunamente pubblicati insieme ai commenti e alle risposte della Commissione stessa.
E qualora non ci siano questi seminari è usualmente aperta una consultazione pubblica dove un sito internet, accessibile a tutti, raccoglie i contributi di coloro che vogliono proporre la loro posizione su un tema. E, tutto questo, prima della scrittura della legge e non dopo! Perché non farlo anche in Italia?
Quando le leggi arrivano in Parlamento esiste un ulteriore strumento di confronto già istituzionalizzato con i lobbisti: le audizioni presso le Commissioni. L’abitudine degli ultimi anni è che siano informali, senza trascrizione, senza pubblicità dei documenti presentati dai lobbisti. Perché? Mistero. La politica ha forse paura di essere giudicata dipendente dai gruppi d’interesse qualora prenda parte o tutto di un loro suggerimento? Non spetta a noi dare una risposta, ma ancora una volta basta un semplice sito internet dove pubblicare le posizioni dei gruppi di interesse.
Per queste due semplici “innovazioni” – consultazione pubblica e preventiva, sia a livello di creazione della legge nei Ministeri che di sua conversione in Parlamento – non serve una legge, basta la semplice volontà politica e una modifica, minima, dei regolamenti di Camera e Senato.
Penso che ne trarremo beneficio tutti: i lobbisti che sarebbero costretti ad un lavoro più specifico sui contenuti invece che sulle relazioni; la politica che avrebbe a disposizione maggiori informazioni per decisioni più consapevoli; i cittadini perché potrebbero controllare meglio il confronto tra interessi privati e pubblici. Tra lobbisti e politici.
Alberto Cattaneo
Founding Partner Cattaneo Zanetto & Co.