Vi ricordate la scena finale di Quo vado?, il film di Checco Zalone che ebbe qualche anno fa tanto successo ai botteghini? Il protagonista, dopo varie peripezie, ritrovava il suo “posto fisso” minacciato dalla legge che lo aboliva: avrebbe continuato a lavorare sotto casa senza fare praticamente altro che il passacarte. Una sola cosa era cambiata: la targhetta all’ingresso dell’ufficio ove non si parlava più di “provincia” ma di “area metropolitana”.
Far finta di cambiare per non cambiare nulla: parafrasi perfetta, quella scena, di una certa tradizione italica che non muore mai! Ora, l’ipocrisia del legislatore, vera o presunta, rischia di scomparire, con le province che dovrebbero riprendere forma proprio nella dismessa forma di un tempo. E persino con consiglieri e presidenti eletti direttamente dai cittadini. Questa sembra in effetti l’intenzione che emerge dai documenti di un volenteroso tavolo tecnico della Conferenza Stato-Regioni, coordinato dai sottosegretari Laura Castelli (M5S) e Stefano Candiani (Lega), che da qualche mese lavora al difficile riordino delle competenze delle amministrazioni locali. Rivelata da Il Sole 24 Ore, l’idea di ripristinare le province è stata l’ennesima occasione per un duetto polemico fra i due viceministri, trovatisi anche in questo caso su sponde contrapposte.
Con una variante inaspettata: Salvini a difesa della “restaurazione” e Di Maio fautore di una deregulation amministrativa quasi di stampo liberista. Sorprendente, sol che si consideri che la semplificazione è stata da sempre un cavallo di battaglia della Lega, che anzi si intestò nel 2011 con Roberto Calderoli, allora suo ministro (proprio alla “semplificazione normativa”), proprio i tagli alle spese delle province fatti dall’ultimo governo Berlusconi. D’altronde, non c’è dubbio che i ceti produttivi di cui la Lega è stata da sempre espressione (e in qualche modo continua ad esserlo ancora oggi) giudicano la proliferazione dei poteri amministrativi come un ostacolo alla loro attività e un danno alla competitività delle nostre aziende.
Il leader e gli altri esponenti della Lega intervenuti nel dibattito hanno motivato il giravolta con il richiamo ad un sano pragmatismo e al “buon senso”: l’abolizione avrebbe creato “disastri” e alcuni servizi, tipo la manutenzione delle strade e la sicurezza degli edifici scolastici, ne avrebbero fortemente risentito. In più, l’analisi costi-benfici (che pure fino a ieri era un cavallo di battaglia dei Cinque Stelle) mostrerebbe come l’abolizione non abbia creato risparmi. Quanto a Di Maio, dopo aver definito le province un “poltronificio”, ha osservato che “non è riesumando un carrozzone che si assicurano i servizi”. Non sappiamo quale compromesso sarà raggiunto dalle due forze di governo su questa ulteriore grana che il presidente del Consiglio si troverà ad affrontare al suo rientro dalla Cina.
Possiamo però dire che, al netto degli interessi in gioco (che pure sono elemento essenziale della politica), la posizione liberale sarebbe quella non tanto di evitare la proliferazione dei poteri pubblici quanto di evitare la sovrapposizione delle loro competenze e l’interdizione reciproca che ne può derivare al processo decisionale. Avvicinare quanto più possibile il potere ai cittadini, e fare in modo che essi possano controllarne l’efficacia, è un bene in sé, ma il principio cardine dovrebbe essere quello della sussidiarietà: decide sempre il potere più vicino fino al punto in cui gli è possibile, quello immediatamente più in alto quando la decisione travalica il ristretto ambito territoriale. Ci sono gli spazi politici per realizzare questa “rivoluzione” oggi in Italia? Sembrerebbe proprio di no, ma in verità non ci sono stati mai neanche nel passato. Checco Zalone docet!