Ho appena terminato di leggere “La Confederazione Italiana”, l’ultimo libro di Geminello Alvi. Avevo conosciuto Alvi attraverso i suoi articoli di economia sul Foglio, ma meglio ancora con “La vanità della spada”. Libro bellissimo e raffinatissimo. Ero rimasto colpito dalla scrittura fluida ma ricercata, colta senza essere complicata. Immaginosa ma non icastica.
Appena ho aperto e iniziato a leggere la Confederazione Italiana non potevo immaginare, non avendo letto alcuna recensione, ciò che mi aspettasse. Straordinaria fu la sorpresa. Chi lo leggerà vi troverà tutto l’autore che, in questo lavoro, si è aperto, fatto a brandelli, e ricomposto a mezzo rilegatura e colla in questo volume. Un’analisi disincantata, quasi anatomopatologa, di un paese, il nostro, verso il quale solo la condizione di esilio è in grado di muovere sentimenti benevoli.
Geminello Alvi è in Russia, presso Aleksej, un tale che ricorda quei personaggi improbabili del film “Ogni cosa è illuminata”. Ha uno specialissimo punto di osservazione. Guarda L’ovest da Est. Ma a Est egli si sente al centro del Mondo. Specie alla notte. Specie guardando l’infinità degli spazi. Quando il tempo, in accelerazione crescente, è il cielo che assorbe la terra.
Un po’ pastore errante per l’Asia, un po’ Gallo Silvestre. Immaginatelo, se volete, come uno dei novellieri che ha contribuito al Decameron di Ser Boccaccio.
Paragoni non scelti a caso. Perché in questo Zibaldone c’è poesia, quella con la “p” maiuscola. Un’acuta, sferzante, ironica, e durissima analisi dei vizi italiani. Degli italiani e dell’Italia. Come appunto nel Decameron che divenne classico perché Ser Cappelletto è tipo umano vivo in mezzo a noi.
Geminello Alvi, ci sbilanciamo a dirlo, non è uomo di questa epoca. Doveva vivere ai tempi di Guido Bonatti. Il forlivese che faceva parlare assieme le scienze fisiche con quelle umanistiche. Il forlivese che fu astrologo e astronomo quando ancora tali discipline vivevano vite confuse sotto le stesso tetto da cui si osservava il tappeto di stelle entusiasmandosi della bellezza del creato, dei movimenti celesti, della mirabile perfezione che regolava, si diceva allora, le alte rote e quelle terrestri. Tempo in cui non si faceva altro che essere uomini. Che voleva dire, lo dice l’etimo, volgere lo sguardo al cosmo.
Perché questo libro? Per immaginare un paese che abbia dell’umano una percezione celeste, alta, somma. Perché è dall’uomo, dall’idea dell’uomo che bisogna partire non certamente dall’Imu. Perché va ritrovato quel capo del filo che si è smarrito. Un cristianesimo cosmico che dovrebbe darsi un ambito stellare e un rito nei cuori dei miti.
Non c’è solo poesia. Non c’è solo il rimirar la Luna sulla steppa su cui s’allunga l’ombra e il freddo delle notti a Est. Sotto il cielo russo, complice di porgere alla pagina materia urgente, gli occhi aperti dello scrittore, con tanto di coni e bastoncelli, hanno chiara una via e la indicano. Quella di Una Confederazione appunto. Uno stato minimo che si occupa della difesa interna ed esterna. Fondazioni per la cultura e sanità. Imprese solidali per l’economia. La lezione di Dumezil. Che fu anche di Steiner e che lo scrittore marchigiano fa sua evocando sempre, continuamente, la lezione di Adriano Olivetti.
Non manca l’ironia, così come la nota di costume. E’ un libro completo, un po’ diario, di anneddoti e aforsimi. Scritto di notte più che di giorno, con l’Est in testa più dell’Ovest sapendo che tra i due cardinali l’Italia finì stritolata per sua modestia. Un libro che sa fare glossario, ricordando Malaparte, dell’antropologia italica che finisce messa a nudo nei suoi istinti più veri “cosa sarebbe Berlusconi se non ci fosse stato Alberto Sordi” oppure “Nilde Jotti, la monica Lewinsky di Togliatti”. O per dire tutto in sintesi dell’economichese, tarma che scambia il fine con i mezzi, “entrare nell’Euro fu come stabilire la Legge Merlin”.
Alvi ha un pubblico cui scrive, ma non cerca un pubblico che è l’aldilà del baratro. Non ci sono cartonati davanti alle librerie che lo raffigurano, come capita a molti asintattici.