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Gianni De Michelis tra Nordest, EniMont e Farnesina

Nel ricordare la figura di Gianni De Michelis, ministro degli esteri tra il 1989 e il 1992, è opportuno partire da una considerazione. Nel periodo in cui il politico oggi scomparso era titolare della Farnesina, l’Italia si attestava al quinto posto tra le potenze industriali del mondo: trent’anni dopo, il Belpaese è scivolato al 9° posto scavalcato da Brasile e India (fonte World Bank). Parentesi non secondaria e forse non casuale: è notizia di queste settimane che Saudi Aramco, il colosso petrolifero saudita, abbia fatto un’offerta per il 25% del business petrolchimico di  il  Reliance Industries, gruppo privato indiano. Non casuale ricordarlo adesso e in connessione con la figura di De Michelis, in quanto egli fu testimone e promotore di quel tentativo di creare un gruppo chimico di stazza mondiale che fu la breve esperienza di EniMont (1988-1990), un abbraccio tra grande capitale statale e imprenditoria privata del Nord che, pur nei suoi limiti, evidenziava un’ambizione industriale e una progettualità strategica di cui in Italia sono stati alfieri in pochissimi, tra i quali Enrico Cuccia.

Proprio il banchiere siciliano e De Michelis, ministro delle partecipazioni statali nei primi anni Ottanta, costruirono attorno a Gemina una cassaforte di interessi privati in grado di fare da stanza di compensazione tra le grandi famiglie industriali del Nord Italia, confermando la centralità della galassia Agnelli.

Fu alla fine degli anni Ottanta che la scalata del bresciano Giovanni Bazoli nel Nuovo Banco Ambrosiano ruppe quel fronte provocando una nuova fase di instabilità, più che altro mediatica, visti i riverberi sulle testate controllate indirettamente. Con De Michelis “distratto” dagli eventi internazionali (caduta del Muro di Berlino, crisi irreversibile dell’URSS, tensioni in Medio Oriente), e con Craxi impelagato negli asfittici equilibrismi romani, in breve si provocò il divorzio politico tra gli interessi del Psi e quelli del territorio cui il “Doge” socialista (nato a Venezia e fieramente veneziano) guardava con grande attenzione, ovvero il Veneto e il Nord-Est, la locomotiva della “terza Italia”, quella che trascinò il resto del paese negli anni Settanta-Ottanta, con un ciclo lunghissimo ed esaltante, dal podere al capannone alla concentrazione di distretto, alla media impresa multinazionale.

La distanza tra l’Italia del 1990 e quella del 2020 è impietosamente racchiusa in quelle quattro posizioni perse nel ranking mondiale. Vi sono, in questo album di recriminazioni, almeno due grandi rotture (la crisi jugoslava e la Guerra del Golfo del 1991) rispetto alle quali l’Italia si trovò impreparata. Difficile parlare di “occasioni perse”, perché la complessità dei rapporti squadernata dalle crisi impediva e ancora oggi impedisce di leggere un chiaro tracciato favorevole agli interessi nazionali in Medio Oriente e nei Balcani.

De Michelis apparteneva ad una stagione politica in cui la centralità industriale era ancora ben presente nel discorso pubblico. L’ideologia della “decrescita”, figlia dell’opulenza (più che della prosperità), oggi invece prevale in contesti fortemente urbanizzati, nelle poche grandi città che hanno il monopolio mediatico e del discorso pubblico, in contesti comunque fortemente sbilanciati verso i servizi, sempre più lontani dall’immaginario che formava e ancora forma la “Terza Italia”, fatta di piccole e medie città a vocazione manifatturiera.


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