Immaginiamo un marziano che guardi la Terra dalla sua navicella spaziale. Il suo sguardo vaga tra masse continentali, giganteschi oceani, grandi spazi, e poi intravede, semichiuso tra due immensi blocchi, un lago. Quel lago è il Mar Mediterraneo: 2,5 milioni di metri quadri, appena lo 0,67% delle superfici oceaniche. Un nulla per il nostro marziano. Ma quel lago ha 46mila chilometri di coste. Già questo dato ci dice qualcosa sulla sua varietà e frammentazione morfologica: un bacino occidentale e uno orientale, quattordici mari minori, due “laghi esterni” (Mar Nero e Mar Rosso). E poi, il 20% del traffico di petrolio passa di lì.
Poiché però la maggior parte dei dati strategici non è visibile ad occhio nudo, e le risorse che strutturano un campo di potenza sfuggono all’osservazione diretta, è forse utile fornire al nostro ignaro marziano un breviario di storia per spiegargli l’anomalia mediterranea: l’immensa forza di attrazione che quest’area esercita per tanti, e tanto diversi, interessi e universi culturali.
Una vocazione pluralistica
In principio furono l’Egeo e il Nilo. Da una parte il mare frastagliato che accoglie corone di isole disseminate tra Turchia e Grecia, e dove si sviluppò una cultura artistica pittorica raffinata, dall’altra la civiltà egizia, culla dell’agricoltura cerealicola e delle tecniche idrauliche. Anche grazie agli intensi traffici commerciali dei fenici, il baricentro, fino a qualche centinaio di anni prima di Cristo, era spostato verso il bacino orientale. Assiri e persiani dall’Asia premevano sulle coste levantine, ma la loro forza militare non bastò a dominarle in modo duraturo, e a trasformarle in province asiatiche.
Un tratto distintivo, caratteristico della storia politica mediterranea, è proprio questo: l’incapacità di imporre a questo territorio un marchio unico e unitario, anche da parte di grandi potenze egemoni su altri teatri. Costrette a passare per il setaccio delle sue coste, esse hanno sempre dovuto cedere qualcosa, in termini materiali o immateriali, economici o culturali. L’area porta i segni di un’opzione geopolitica opposta a quella del bassopiano nord-europeo, in cui si sono succedute ondate di civilizzazioni diverse e mutualmente esclusive, ed è forse per questo che il paradigma di Huntington della guerra di civiltà – proprio mentre sembra meglio descrivere alcuni tratti ideali della lotta mediterranea – non ne coglie la dinamica di composizione e ricomposizione. L’immagine è quella di un grande mercato aperto alle incursioni di newcomer, e finanche di pirati, ma altrettanto pronto, grazie al gioco di forze in concorrenza quasi perfetta, a respingere le imprese monopolistiche e i tentativi di rapina, per riaffermare regole non scritte, ma millenarie, di comune convivenza. Solo l’Impero romano, com’è noto, riuscì nell’unificazione politica, ma è bene non enfatizzare, in quasi cinquemila anni di storia, la portata di circa tre secoli e mezzo (dalla battaglia di Anzio con l’annessione dell’Egitto, alla fondazione di Costantinopoli, con cui il dominio del Mare nostrum viene suddiviso tra due centrali politiche).
L’aspetto spirituale e religioso comincia a prendere il sopravvento, a determinare i nuovi tentativi di unificazione e scontro, e le forme della contesa. La centralizzazione di Roma vince su quella ellenistico-orientale, e dopo la caduta e le invasioni barbariche, si impone, accanto alla scissione oriente-occidente (che dal 1054 assumerà anche la forma religiosa cristiano-ortodossa), la direttrice occidentale, carolingia, in nuce europea: da Roma ad Aquisgrana. Diversa ma complementare a quella bizantina, poiché entrambe si oppongono al tentativo unificante arabo-islamico.
Simboli, culture e religioni: una forza reale
A questo punto il marziano potrebbe essere spinto a chiederci se e in che misura la religione sia la forza motrice della lotta per il controllo di questo mare, la costante che, da dietro le quinte, osserva le forme politiche contingenti nascere, crescere e perire, il noumeno che guarda i fenomeni alternarsi come vapori marini all’accecante luce del meriggio mediterraneo.
La struttura del bacino occidentale-cristiano conosce gli imperi romano-barbarici, i carolingi, il Sacro romano impero; quello levantino-islamico, gli abbasidi, i selgiuchidi, i mamelucchi, gli ottomani. Nell’era degli Stati-nazione, il contenuto religioso si attutisce, ma non si perde. Né poteva essere diversamente: sulle coste di questo mare ci sono i tesori più preziosi, i simboli unificanti, delle grandi fedi, da San Pietro al Muro del Pianto, dalla Moschea di Omar al monastero del Monte Athos. Sotto la superficie nazionale scorrono tradizioni antiche, pronte a rompere alleanze formali per impugnare nuovamente quei simboli e farne pegno di conquiste e riconquiste. È il fiume carsico delle passioni che dividono al suo interno, attraversandoli con fermenti di decomposizione, i tessuti connettivi delle alleanze formali, e ne ricompongono di nuovi, sulla base di diverse e più profonde affiliazioni. La storia del Novecento ne è piena. La Jugoslavia del croato Tito opera la scissione, la rottura “revisionista” dal blocco sovietico prevalentemente ortodosso. L’Albania formalmente marxista, ma con una forte tradizione turca e musulmana, la segue a breve giro, legandosi alla Cina. E la Grecia ortodossa era vista in molti scenari di Guerra fredda come benevolmente neutrale in caso di attacco dell’Urss alla Turchia musulmana. Il fiume carsico continua a scorrere ed esplode, incendiato dalle rendite petrolifere e dalle tensioni internazionali, negli anni Ottanta, quando perfino l’Urss “atea” flirta con gruppi fondamentalisti dell’area. Nonostante tentativi di utilizzarla in un quadro bipolare, la cosiddetta rinascita islamica jihadista ha i tratti di una guerra interislamica, la cui posta in palio è l’egemonia regionale, contro tutte le altre potenze in gioco. Colpisce Egitto, Turchia e, con una vera e propria guerra civile, l’Algeria: il fondamentalismo non realizza il califfato, ma apporta destabilizzazione e tensioni. La questione israelo-palestinese, centrale nelle strategie Usa dagli anni Settanta in poi (anche in competizione con le potenze regionali dell’Europa), è una chiave che apre qualche porta del condominio mediterraneo a Washington, ma ne chiude molte altre. La Ue, dal canto suo, gioca con l’idea di un “soft power” economico scollegato dalla dimensione militare.
Le opportunità del lago globale
Ora il marziano ignaro del Mediterraneo potrebbe chiedersi: perché potenze estranee, lontane anche geograficamente dall’area, hanno tentato di prenderne il controllo? Non solo quindi gli attori rivieraschi, impegnati in uno scontro egemonico regionale tra potenze medie (per esempio Italia e Francia), piccole potenze (Israele, Siria) e altre che ambiscono, grazie alla dinamica economica che le supporta, a passare da uno status di “piccole” a “medie” (Turchia, Spagna) – ma anche Gran Bretagna, Germania, Stati Uniti, Cina, Russia. A questo punto il nostro breviario di storia deve aprire il capitolo della geopolitica. Potere e interessi economici non si distribuiscono ugualmente sulla superficie terrestre; in virtù dei diversi ritmi di sviluppo e della diversa distribuzione delle materie prime strategiche (si pensi al gas naturale), vi sono aree che addensano e concentrano gli appetiti dei grandi gruppi economici e diventano oggetto di elaborazione di linee di politica estera. È nella dinamica oggettiva che questo accada, ed è segno di maturità politica scommettere su quest’area per assurgere ad una dimensione globale. È la scelta della Cina, che muovendo dall’ambito africano ha aumentato la sua presenza mediterranea. L’Italia in passato ha fortemente scommesso sugli scambi con Turchia, Libia, Egitto, Iran, e in misura minore, Algeria. Già nella fase finale della Guerra fredda individuò il Mediterraneo allargato al Golfo Persico come segmento di “arco di crisi” in cui sviluppare la penetrazione economica e politica: le dimensioni oggettive del suo coinvolgimento nell’area e la solidità del suo legame politico euro-atlantico le danno la possibilità di rilanciare la carta mediterranea nel gioco multipolare.
Se sarà un asso pigliatutto o un due di briscola, dipenderà dagli strumenti politico-strategici di cui vorrà dotarsi nel prossimo futuro.