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Il carry trade pagato dalla Bce che ha devastato l’eurozona

Per la finanza vale una regola, tanto semplice quanto misconosciuta: quando le cose vanno bene si guadagna tanto, quando vanno male si perde tantissimo.

Tale elementare verità si accompagna a un’altra, altrettanto obliterata nei costanti processi di rimozione che accompagnano gli investitori preda dell’euforia rialzista: un rendimento elevato è sempre associato a un rischio elevato. Magari non ci pensate, quando vi propongono un’obbligazione al 10%, della quale godrete i frutti sempre finché le cose vanno bene. Se vanno male però dovete sapere (possibilmente prima) che il valore del vostro titolo può semplicemente sparire.

Ora se queste regole possono pure essere ignorate dai comuni mortali, non a caso cinicamente denominati “parco buoi”, si presume appartengano al dna stesso delle istituzioni finanziarie. Senonché a leggere un interessante studio del Nber, pubblicato il 13 maggio scorso, sembra proprio che tali processi di rimozione siano assai più diffusi di quello che si possa credere.

Lo studio “The greatest carry trade ever? Understanding eurozone” racconta i guasti provocati proprio dalla pratica del carry trade sul sistema bancario europeo.

Prima di proseguire, regaliamoci un momento di divulgazione. Il carry trade è una pratica speculativa che prevede di predere a prestito denaro in paesi con tassi di interesse bassi per investirlo in paesi con i tassi alti in modo da ripagare il debito contratto e ottenere un guadagno con la medesima operazione. Per la cronaca, tale pratica è diffusissima da quando il Giappone, da almeno un quindicennio, ha messo i tassi praticamente a zero.

Ma qui ci riguarda un altro carry trade, ossia quello iniziato dentro l’eurozona ad opera degli operatori finanziari europei, banche in testa, lucrando sui differenziali di rendimento dei paesi dopo l’inzio della crisi dello spread, quindi dal 2007 in poi, grazie al programma di liquidità a basso costo messo a disposizione dalla Banca centrale europea.

L’allargarsi del divario fra i rendimenti fra gli stati dell’eurozona, infatti, ha coinciso con un corposa attività di carry trade “interno” da parte delle banche, col vantaggio peraltro di non dover neanche sopportare il rischio cambio.

Il gioco era semplice: si andava “corti”, cioé si vendeva, sul bund tedesco a lungo termine (tipo il decennale), contando di lucrare sui rendimenti in conto capitale una volta che fossero scesi i tassi sui bund, e si andava “lunghi”, quindi si comprava, sugli stessi titoli dei periferici, contando di lucrare in conto interessi grazie ai rendimenti più alti.

Questi investimenti a lungo termine venivano finanziati con prestti/debiti a breve. Il tutto grazie ai soldi a breve termine forniti dalla Bce.

Le banche hanno iniziato a lucrare sui bond dei cosiddetti GIPSI (noto per la seconda volta che i Pigs ora si chiamano così, perché la I dell’Italia unita a quella dell’Irlanda creava evidenti problemi di declinazione), fino a quando però le perdite sul corso dei bond dei GIPSI non hanno iniziato a generare perdite insostenibili sui bilanci.

All’aumentare degli spread, altra regoletta sottovalutata, e quindi dei tassi, diminuisce il valore dell’obbligazione, e quindi il mark to market in bilancio alla banca, con relativo nocumento dei coefficienti patrimoniali. Il che è esattamente quello che è successo dal 2010 in poi.

Possibile che non ci abbiano pensato?

Evidentemente sì. D’altronde gli dei accecano coloro che vogliono far perdere, anche a livello di conto economico.

Lo studio infatti mostra che il problema è esploso con le grandi banche, spesso sottocapitalizzate, che hanno utilizzato i fondi a breve termine messi a disposizione dalla Bce non per far credito all’economia ma per fare, appunto, carry trade. E ci hanno rimesso le penne.

La conseguenza è stata che in media le banche europee hanno perso il 70% del loro market value e perso miliardi di euro di asset tentando di riportare al livello richiesto i capital ratios.

I casi di banche finite nei guai sono numerosissimi. Lo studio cita quello di Dexia, che finanziava un terzo del suo bilancio con almeno il 50% di debito a breve. Finché, nel 2011, non riuscì più a raccogliere fondi a breve per sostenere il bilancio e fu oggetto di salavataggio pubblico (questo tanto per ricordare chi paga). Oppure la mitica Banca di Cipro, che ha quadruplicato gli investimenti in bond greci nel 2010 con i soldi presi a prestito dalla Bce nel 2009. Anche qui vale la regoletta di prima: hanno guadagnato tanto e perso tantissimo.

Lo studio presenta anche alcuni dati interessanti. Ossia la ricognizione, fatta sulla base degli srtress test richiesti dall’Eba, sulla presenza di bond sovrani nei bilanci bancari dal marzo 2010 al giugno 2012, in piena crisi quindi.

Bene, quello che emerge è che ancora a marzo 2010 le banche europee, sia GIPSI che non GIPSI, avevano oltre 94 miliardi di bond greci in pancia, il grosso dei quali (circa 56 miliardi) nelle banche degli ex pigs. A settembre 2011 ne erano rimasti solo 24 miliardi, 21 dei quali in mano a banche non Gipsi (quindi sostanzialmente franco-tedesche). A giugno 2012, i bond greci in mano alle banche non pesavano più di 1,8 miliardi.

Il caso italiano è interessante. A marzo 2010 le banche europee avevano in bilancio 264 miliardi di bond italiani, 115,4 dei quali in mano ai bravi (i non Gipsi) e 144 ai cattivi. Al picco della crisi, quindi a dicembre 2011, i bond italiani in mano alle banche erano 223 miliardi. Oltre 40 in meno, “scaricati” dalle banche “Non Gipsi”, quindi essenzialmente franco-tedesche, visto che l’esposizione delle banche periferiche è rimasta sostanzialmente immutata.

Questo tanto per far capire chi sono davvero i paesi solidali e chi no.

Il dato aggregato ci dice di più. A marzo 2010 le banche europee avevano in pancia 583 miliardi di debito sovrano dei Gipsi. A giugno 2012 solo 449 miliardi.

A marzo 2010 le banche dei paesi forti (non Gipsi) avevano 210 miliard di bond Gipsi. A giugno 2012 solo 102.

A marzo 2010 le banche dei Gipsi avevano bond dei loro paesi per 353 miliardi. A giugno 2012, 331.

Quindi le banche dei paesi forti hanno “buttato” soffrendone le relative perdite in conto capitale, oltre 100 miliardi di bond sovrani dei periferici, mentre le banche di questi ultimi hanno provato a tamponare l’emorraggia con risorse proprie. Con tutto ciò che ne consegue per la sostenibilità dei loro bilanci.

Alla fine la finanza è un gioco a somma zero.

Ma questo i consulenti non ve lo dicono.

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