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Strategia bolsa, tattica fallimentare

Contenuto inedito
 
È dal giugno del 2008 che si parla della costituente del Centro, quando, a Roma, si riunì il comitato promotore che elaborò un appello in cui si diceva: «Gli italiani amano profondamente la politica. Eppure la politica, da ormai molto tempo, ha tradito gli italiani. Non ha corrisposto alle loro attese di modernizzazione, di rilancio dell’autorità statale, di nuova protezione sociale, di promozione del merito, di amore per l’etica pubblica, di difesa dei valori della comunità nazionale. In sostanza, la politica ha tradito se stessa: rinunciando a lavorare per il bene comune che dovrebbe invece essere l’unica sua vera missione».
Quel documento aggiungeva: «L’obiettiva evidenza di tale scenario, che ha moltiplicato i sentimenti di sfiducia nella politica, ha indotto la sinistra e la destra, prima delle ultime elezioni, a realizzare due grandi coup de théâtre: la nascita del Pd e del Pdl. Siamo così entrati in un “finto bipartitismo senza partiti”. Finto perché la Lega da una parte, l’Italia dei Valori dall’altra e la persistenza di partiti e gruppi autonomi organizzati, ha prodotto in realtà “coalizioni camuffate”. Senza partiti perché, per ora, si tratta solo di castelli di carta costruiti intorno a un leader».
 
Perso, dopo qualche mese, Bruno Tabacci, con il suo passaggio alla nuova formazione politica costruita con Francesco Rutelli nel novembre 2009 dell’Alleanza per l’Italia, è con il convegno di Todi dal 20 al 22 maggio del 2010 che, con il seminario della Fondazione Liberal di Ferdinando Adornato, si decide l’azzeramento delle cariche dirigenziali dell’Udc e il lancio del nuovo partito dei moderati.
In attesa del congresso dell’Udc previsto per gli inizi del 2011, è sempre a Todi che dal 28 al 29 gennaio di quest’anno si è tenuta la Convention di quello che, con grande fiducia, viene denominato “Terzo Polo”, dopo l’avvenuta adesione al progetto della componente finiana del Pdl, uscita dalla maggioranza di governo e causa dell’instabilità nella quale si ritrova l’Italia dall’autunno del 2010. A Todi, ancora senza risultato, si è anche tentato di trovare un nome per il nuovo polo. Sarà per la prossima volta.
Casini-Fini e adesso Rutelli, costituiscono, dopo Todi, il trio che dovrebbe assumere la leadership dei moderati italiani. Sono personaggi ai quali è rischioso affidare il Paese, in un momento di gravi tensioni economico-finanziarie con il terzo debito sovrano dell’Italia nel mondo. Sono tre figure mutanti: Fini, ultima espressione di una trasformazione genetica senza pari; Casini, interprete stanco e compromesso del lungo travaglio postdemocristiano e Rutelli, tipico saltimbanco del trasformismo politico e parlamentare italiano. Sono in Parlamento da trent’anni. Non hanno mai lavorato davvero in attività normali, se non dedicandosi a tempo pieno a quelle della politica. Con D’Alema e Veltroni, formano un quintetto stonato, di aspiranti permanenti a ruoli di leader. Eppure questi tre congiurati ribaltonisti stanno mettendo a rischio, con la continuità della legislatura, la stessa unità del Paese. È un fatto assai grave che la congiura sia stata ordita nell’ufficio del garante del Parlamento, trasformato nella sala del ribaltone. Quest’operazione, compiuta in quel luogo, costituisce una profonda rottura di una prassi istituzionale largamente consolidata e che vedeva da sempre il Presidente della Camera geloso custode della sua funzione arbitrale. Fini è riuscito a ridurla a quella di un capo manipolo di ribaltonisti e bari, utilizzando il suo scranno e la sua funzione di terza carica dello Stato per destabilizzare, da un luogo e una funzione impropria, la maggioranza e il governo del Paese. Stretti nella morsa tra il rispetto della norma costituzionale e la mutata realtà politica e strutturale del Paese, il trio dei congiurati hanno tentato, sino ad ora fallendo, un’operazione trasformistica di palazzo che assume il carattere di un autentico attentato alla democrazia.
 
Pensare di rovesciare il governo e il leader votato dalla stragrande maggioranza popolare, per sostituirlo con un governo di quelli che hanno perduto le elezioni, era ed è un’operazione squallida che non potrà essere tollerata dagli elettori che credono ancora nella sovranità popolare. Se, poi, puntassero, come ogni giorno emerge sempre di più, alla rottura con la Lega, la frittata sarebbe fatta. Il rischio sarebbe quello, da me più volte sottolineato, di una rivolta fiscale generalizzata con conseguenze drammatiche per l’unità del Paese.
In verità è proprio questa contraddizione, tra un involucro istituzionale arcaico che configura un governo parlamentare e la realtà politica tutta orientata verso il presidenzialismo, dai sindaci, presidenti di provincia e governatori regionali, che andrebbe superata. E, si sa, quando non ci sono le condizioni parlamentari e politiche per tale svolta, accade che la “ropture” avvenga, ma attraverso passaggi traumatici, già presenti allo statu nascenti nel nord del Paese, e per certi aspetti, nello stesso meridione d’Italia.
Il voto contrario in bicamerale sul federalismo fiscale dei comuni è la prova di una strategia piegata al basso calcolo politico di una tattica asfittica e perdente. Meno male che la maggioranza in Parlamento, bloccata dal fedifrago Baldassarri in commissione, si è consolidata in aula e il decreto, al di là del giusto richiamo formale del capo dello Stato, diventerà quanto prima legge.
Certo, in democrazia è sempre possibile puntare su nuove alleanze e proporre nuove leadership.
 
Se, tuttavia, come si sperava, il Cavaliere fosse stato sfiduciato e la maggioranza battuta, l’unica strada da percorrere, compiuto il rituale giro di consultazioni dei partiti e delle massime autorità dello Stato, non sarebbe stata quella allora auspicata di un governo tecnico o di responsabilità nazionale, ma quella delle elezioni, mostrando ciascuno il proprio volto e la propria proposta politica ai depositari unici ed esclusivi della volontà popolare: gli elettori italiani.
Stando attenti, però, che a scherzare con il fuoco questa volta ci si potrebbe veramente bruciare.
Si rasenta il tragicomico quando con D’Alema e il suo innaturale gaulaiter Bocchino, si ipotizzano per le prossime elezioni, se e quando si faranno, governi di “emergenza democratica”. Sarebbe un vero e proprio scontro elettorale paragonabile a un’autentica ordalia con un Paese a rischio di secessione. Sai che celebrazione dei 150 anni dell’unità d’Italia!
In realtà ciò che ha spinto e spinge tuttora, con più coerenza Casini e Fini, in un’equivoca e inaccettabile doppia funzione, a unirsi a Rutelli nella nuova avventura del Terzo polo, nasce dalla convinzione che il ciclo berlusconiano sia concluso. Si illudono che, come per incanto, questo “finto bipolarismo”, come lo chiamano loro che, dell’infausto “porcellum”, causa diretta di tale assetto, hanno precise responsabilità, sia destinato a scomparire con la fine politica del signore di Arcore.
Sono passati già molti anni dal momento in cui Casini prima (2004) e Gianfranco Fini poi, con alterne strategie e tattiche ( 2006-2008-2010), ipotizzano la fine politica di Berlusconi, accarezzando l’idea di raccoglierne l’eredità e di assumere la guida del blocco moderato italiano. Tutto si basa su una sottovalutazione profonda di ciò che unisce, al di là della debolezza oggettiva di un partito monocratico a prevalente leadership popolare e carismatica, il blocco culturale, sociale, economico e politico che costituisce la base del consenso berlusconiano.
Da un punto di vista strategico appare assurda l’idea di poter ereditare la guida dell’elettorato moderato, nel momento in cui da mesi e, in maniera violentissima nelle ultime settimane, Casini e Fini si cimentano in un attacco permanente e rabbioso contro il Cavaliere, facendo il paio con le intemerate patetiche del solito Bersani e di quella buona lana del trattorista di Montenero di Bisaccia.
 
Difficile che il popolo dei moderati, che ha confermato la fiducia a Berlusconi nelle politiche del 2008, nelle europee, regionali e amministrative tra il 2009 e il 2010, possa farsi guidare da chi sta concorrendo in maniera plateale al tentativo di distruzione politica di Berlusconi.
Fallace da un punto di vista tattico pensare di esercitare un ruolo dirigente da Terzo polo, in presenza di una legge elettorale, di cui non si possiedono i numeri parlamentari per una modifica in senso proporzionale, che non consente voti inutili su inesistenti e inefficaci terzopolismi.
L’abbiamo già tentato nel 1994, e allora c’era il mattarellum, con il bel risultato di determinare la fine del Ppl.
Vana, in definitiva, quest’azione politica fallimentare dopo che, nonostante la scissione dei finiani, si è tentato il ribaltone insieme al Pd e alle altre schegge riunite attorno ai terzo polisti, per ben sei volte il Cavaliere l’ha sfangata alla Camera e con il voto di giovedì 3 febbraio ha raggiunto la quota di 315, 316 voti con quello del Presidente del consiglio, ossia la fatidica soglia della maggioranza assoluta parlamentare.
Una maggioranza che, con il prossimo rimpasto di governo, è destinata ad allargarsi con il ritorno nel Pdl di altri deputati del gruppo finiano, dopo che alcuni ex Udc hanno permesso la costituzione del gruppo dei responsabili.
Comunque la si giri siamo in presenza di una strategia bolsa e di una tattica perdente. Nella buona sostanza al fallimento di una prospettiva politica.
Certo, l’onda lunga berlusconiana sta giungendo a esaurire la sua carica propulsiva, anche se gli ultimi attacchi mediatico-giudiziari di una violenza inaudita, non sembrano abbiano compromesso la sostanziale fiducia dei moderati italiani nel Cavaliere.
 
Personalmente continuo a pensare che meglio sarebbe stato, sicuramente per Casini, e, per lo stesso Fini, se il duo bolognese fosse rimasto all’interno del processo che ha portato alla costituzione del Popolo della Libertà, giocandosi la successione a Berlusconi dall’interno del movimento dei moderati che nulla intendono spartire con i Bersani, Vendola e le Rosy Bindi.
Oggi, con la loro assurda strategia e perdente tattica politica, si ritrovano alla mercè di quello stralunato giullare di Bocchino, a braccetto dell’eterno perdente D’Alema, in un vicolo cieco nel quale i moderati italiani non potranno mai seguirli.
Puntano a un’alleanza strategica con il Pd? Non avranno i moderati con loro. Si troveranno a fianco degli ex comunisti nelle prossime elezioni amministrative? Perderanno molti consensi degli elettori ex democristiani e ex aennini.
Insomma erano partiti per suonargliele e come i pifferi di montagna finiranno per essere suonati. Questo accade, come nella commedia dell’arte emiliana, a quel duo bolognese, che il mio amico don Chisciotte paragona a Fagiolino e Sandrone, quando le ambizioni che si perseguono sono molto al di sopra delle concrete capacità e risorse di cui si dispone. E quando l’ingratitudine, il cinismo e la slealtà sono alla base delle azioni politiche.
Spero che, almeno Casini e i suoi, si ravvedano e comprendano che la strada maestra da seguire è quella di continuare a preparare l’alternativa a Berlusconi a fianco del popolo dei moderati, costruendo insieme la sezione italiana del Partito popolare europeo. Una prospettiva diversa, distinta e distante, meglio, alternativa a quella che Bersani, Veltroni e Vendola seriamente dovrebbero ipotizzare per la sinistra italiana.
 
Presidente di Alef – Associazione liberi e forti
 
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