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I tedeschi? Maestri di flessibilità

Marco Biagi non sbagliava. Se in Italia la mancata evoluzione del sistema di relazioni industriali ha determinato un sostanziale ristagno della produttività delle aziende e soprattutto delle retribuzioni dei lavoratori, oggi nella Repubblica Federale le aziende, anche grazie al senso di responsabilità dimostrato dal sindacato, sono altamente competitive. E le retribuzioni dei lavoratori sono le più alte d’Europa
“Le multinazionali o comunque le imprese che competono con concorrenti di tutto il mondo devono reagire alle sfide anche superando vincoli imposti da regole locali. La conferma di questa tendenza viene ancora una volta dalla Germania. Se si tiene conto del fatto che nel Paese almeno sulla carta non dovrebbe esistere contrattazione aziendale, si comprende facilmente come la necessità di trovare un’intesa imponga di travolgere ogni regola formale”.
Non sono parole di oggi, ma di nove anni fa, quando Marco Biagi dalle pagine del Sole 24 ore già avvertiva che se non avessimo seguito l’esempio tedesco, “si sarebbe manifestata in tutta la sua spettacolarità la fragilità di un sistema costruito sull’unità di azione delle tre maggiori confederazioni” e quindi incapace di regolare quella concorrenza tra sindacati che già si stava manifestando in tutta la sua drammaticità. Come ormai riconosciuto da tutti, Marco Biagi era anzitutto lungimirante. Già sul finire del secolo scorso, indicava nella flessibilità contrattuale la soluzione per evitare quella crisi delle relazioni industriali nostrane che altrimenti sarebbe inevitabilmente deflagrata, suggerendo di seguire l’esempio della Germania. Dove le parti sociali, per far fronte alla competizione globale, avevano cominciato ad abbandonare l’ideologia del contratto collettivo di settore per puntare sulle cosiddette clausole di apertura (o di uscita) che consentivano deroghe a livello aziendale, in tema di organizzazione del lavoro, orario e retribuzione, alle discipline dettate dalla contrattazione di primo livello.
 
Come poi hanno dimostrato i fatti, Marco Biagi non sbagliava. E infatti, se in Italia la mancata evoluzione del sistema di relazioni industriali disegnato dal protocollo del 1993 ha determinato un sostanziale ristagno della produttività delle aziende e soprattutto delle retribuzioni dei lavoratori del settore privato, come dimostrano le statistiche degli ultimi quindici anni, oggi in Germania le aziende, anche grazie al senso di responsabilità dimostrato dal sindacato, sono altamente competitive. E le retribuzioni dei lavoratori sono le più alte d’Europa.
In questa prospettiva, può essere utile ripercorrere alcune delle tappe che hanno segnato l’importante percorso riformista tedesco. A cominciare dal più famoso di quegli accordi, quello sottoscritto tra la Volkswagen e l’Ig Metall, meglio conosciuto con la formula “5000×5000”. In quell’occasione, per reagire alla crisi del colosso automobilistico tedesco, i sindacati aziendali hanno prima accettato una riduzione del 20% del salario previsto dal contratto integrativo di Volkswagen e dell’orario di lavoro a 35 ore settimanali (prolungabile sino a 42,5 in relazione alle esigenze della produzione), per rendere possibile, poi, l’assunzione di ben 5mila disoccupati presso le fabbriche di Wolfsburg e di Hannover e per vedere, infine, aumentare le loro retribuzioni complessive fino a 5mila marchi.
 
Questa intesa, fortemente sostenuta anche dall’allora cancelliere Gerhard Schroder, ha avuto un forte impatto sulle relazioni industriali aprendo la strada ad ulteriori, importanti accordi. Come quello del 2004 tra la Siemens e l’Ig Metall che, a fronte della rinuncia da parte dei lavoratori delle mensilità aggiuntive della retribuzione e dell’accettazione del prolungamento dell’orario di lavoro da 35 a 40 ore, ha permesso la conservazione di 2mila posti di lavoro in due impianti produttivi originariamente destinati alla delocalizzazione.
Oppure all’altro accordo, sempre del 2004, tra i sindacati e la Daimler-Chrysler in forza del quale, a fronte di una razionalizzazione dell’organizzazione del lavoro che ha portato risparmi per 500 milioni di euro, è stata assicurata la conservazione dei posti di lavoro sino al 2012. Si tratta solo di alcuni degli accordi che si iscrivono in un più ampio processo di riforma delle relazioni industriali tedesche che ha ridisegnato dal basso il ruolo del contratto collettivo di settore per lasciare agli accordi di livello aziendale la flessibilità necessaria ad individuare di volta in volta, in relazione alle necessità dei singoli contesti produttivi, nuovi e più avanzati punti di incontro. Posto che, in molti casi, le imprese tedesche hanno abbandonato il contratto collettivo di settore per affidarsi ad una regolamentazione dei rapporti di lavoro tutta interna alle aziende attraverso accordi di impianto: in questa condizione, si trovano oggi 2.500 aziende associate alla Gesamtmetall.
 
Certamente, questi importanti cambiamenti che, a distanza di dieci anni, consegnano alla Germania la leadership economica europea, non si sarebbero realizzati se il senso di responsabilità delle parti sociali non avesse trovato supporto nell’opera riformatrice condotta dal governo tedesco, attraverso istituti di successo come la Kurzarbeit, assunta come modello di intervento statale nel mercato del lavoro dal G8 sociale di Washington dello scorso anno, che prevede la concessione di un sostegno al reddito da parte del governo a fronte dell’accettazione da parte delle organizzazioni sindacali delle riduzioni di orario di lavoro. Sono questi solo alcuni degli esempi del processo di modernizzazione che ha consentito alle relazioni industriali tedesche di superare con successo il difficile decennio che si è appena concluso e alla Germania di continuare a crescere, nonostante la crisi del 2008, a un ritmo superiore al 2% del Pil, registrando nel 2010 un aumento delle retribuzioni nette dei lavoratori del 3,4% ed un numero di disoccupati al minimo dal 1992. Ed è evidente che ciò non sarebbe potuto accadere se le parti sociali avessero affrontato la globalizzazione trincerandosi dietro a un sistema di relazioni industriali costruito a misura dell’industria fordista.
 
Come, invece, sta accadendo nel nostro Paese dove, nell’ottica conservatrice di mantenere la rigida supremazia del Ccnl, la Fiom continua ad ostacolare l’attuazione del protocollo del 22 gennaio 2009, ovvero quello che a dieci anni di distanza ha introdotto anche nel nostro sistema contrattuale gli elementi di flessibilità sperimentati con successo in Germania. Ecco, oggi in Italia il problema non riguarda tanto la teoria, perché molte soluzioni sono state già individuate con sano realismo, quanto la pratica del cambiamento che è necessaria a realizzarle. Perché in molti, purtroppo anche nel sindacato, continuano a contrastarle in nome di antiche ideologie.
In fondo, per evitare conflitti laceranti come quelli di Pomigliano e Mirafiori, sarebbe bastato guardare all’esperienza tedesca o, più semplicemente, leggere gli editoriali di Marco Biagi.


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