Il caso di Rosaria Aprea, la miss massacrata di botte dal compagno e finita su tutti i giornali nei giorni scorsi per la sua decisione di “perdonare” e “tornare” dal suo partner (il carnefice), ci costringe ad una seria riflessione.
Nel 2007 l’ISTAT ha realizzato, assieme al ministero delle Pari Opportunità, un’indagine dedicata in toto al fenomeno della violenza (domestica e non) sulle donne. Il campione di riferimento ha interessato 25mila donne tra i 16 e i 70 anni. I dati avevano indicato un quadro drammatico e d’emergenza. Le violenze che subiscono le donne sono spesso causate dal partner (fatta eccezione per la violenza carnale che interessa uomini estranei o comunque non il partner) e per il 96% dei casi non viene sporta denuncia.
Le forme di violenza a cui le donne sono sottoposte sono di vario tipo, le figure che ho messo di seguito, prese da ISTAT, indicano la percentuale di donne che hanno subito certe forme di aggressione da parte di “qualsiasi uomo” e dei propri partner o ex-partner.
Il caso di Rosaria Aprea è uno dei tanti casi di violenza che si consumano tra le mura di casa, all’oscuro, fuori dalla vista della comunità. Spesso, la stessa comunità protegge il carnefice e perseguita la vittima. La cultura maschilista e machista non è affatto minoritaria, è sempre un grave problema, specialmente in alcune zone del Paese. La giustificazione “culturale” non è però tollerabile.
Titti Marrone, su Huffington Post, si chiede se la scelta di Aprea di perdonare e tornare dal proprio carnefice non rappresenti una sconfitta di tutti coloro che negli ultimi trenta o quaranta anni, si sono impegnati (diciamo pure solo impegnate) nella lotta alla violenza sulle donne. Un fallimento della comunicazione e dell’informazione da parte di chi lotta per i diritti delle donne. Ma è davvero questo il problema? Credo che rispondere affermativamente, significhi giustificare questi dati, il 96% di persone che non denunciano le violenze subite. In parte è sicuramente un problema di informazione e soprattutto di formazione, ma non bisogna dimenticare che manca anche una consapevolezza personale, e questo non riguarda certo le donne da sole, ma anche la comunità (famiglia, amici, istituzioni).
Rosaria Aprea può liberamente scegliere di perdonare il proprio carnefice e di tornare con lui, magari sulla scia di pressioni emotive (lo amo), psicologiche personali e sociali (le famiglie e la comunità di riferimento), ma lo Stato ha il dovere di tutelare i propri cittadini anche quando questi non lo vogliono. Il carnefice deve rimanere in carcere, che la vittima lo perdoni o meno. È evidente la responsabilità penale di questa persona: il corpo martoriato della vittima parla da sé. Capisco però che ci sono dei problemi tecnici, dato che la vittima è maggiorenne e non vuole sporgere più denuncia. Ma di mezzo c’è anche un figlio, e quindi si pone un ulteriori problema: la tutela dell’integrita psico-fisica del minore. Lo Stato ha l’obbligo di intervenire in casi limite, e questo credo sia uno di questi casi, purtroppo uno dei pochi emersi rispetto a quel 96% di non denunce.
È tutto facile quindi? Niente affatto, è tutto dannatamente complicato. Occorre una rivoluzione culturale, un cambiamento sia da parte delle donne, che devono trovare il coraggio di reagire, di volersi bene e di rifiutare l’idea che “d’amore si possa morire”, sia da parte degli uomini (certi, perché non tutti sono così) che confondo il sentimento con il possesso, e che vogliono esercitare potere attraverso la violenza. Laddove la consapevolezza degli individui non arriva, penso debbano arrivarci le istituzioni. Il principio si applica bene nel caso di un minore, perché questo non ha capacità decisionale autonoma, molto complesso (forse non praticabile) nel caso di adulti, come nel caso Aprea. Tuttavia, ribadisco, in questo caso c’è di mezzo un minore e lo Stato deve intervenire.
Per quanto riguarda la formazione, poi, ora è imperativo che le istituzioni siano più presenti e attive nella tutela e prevenzione dei casi di violenza ai danni delle donne (e non solo). Penso ad una maggiore diffusione della cultura di genere, attraverso corsi nelle scuole, fin dalle elementari, corsi per il personale di enti pubblici e per i corpi di polizia, forme di sensibilizzazione che coinvolgano anche gli uomini e non solo le donne, perché la questione del genere non è solo per le donne e non si deve procedere nell’errore che di questi temi siano solo le donne intitolate a parlarne.
L’apprendimento può essere efficace solo se coinvolge entrambe le parti, e di questo sono fermamente convinto. Così come sono fermamente convinto che lo studio delle problematiche di “genere” sia fondamentale se si vuole vivere in una società più aperta e tollerante, più pacifica e meno volgare.