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Obiettivo infrastrutture critiche

Che cosa sono le infrastrutture critiche? A livello storico, si può certo riconoscere un primato americano nell’individuazione di questo concetto e delle sue implicazioni per la sicurezza nazionale. È infatti del 1996 la prima direttiva presidenziale Usa in cui si sottolinea la crescente interdipendenza tra reti, sia fisiche che virtuali, vitali per l’economia nazionale, e la necessità quindi di proteggerle in modo particolare. Forse non è un caso che questo binomio interdipendenza-vulnerabilità sia assurto a contenuto politico in un periodo di intensa collaborazione, e al tempo stesso competizione, tra Stati Uniti e Cina. Proprio in quegli anni infatti la globalizzazione sulle sponde del Pacifico presentava il doppio conto: mentre si ampliavano e approfondivano le relazioni commerciali (rinnovo della clausola di nazione più favorita alla Cina, nascita del Wto), le due flotte venivano pericolosamente in contatto sullo Stretto di Taiwan (marzo 1996).
La retorica dell’interdipendenza economica come assicurazione contro i conflitti internazionali, tipica della prima fase del dopo-Guerra fredda, era il correlato ideologico del venir meno di un confronto geopolitico classico – cioè tra potenza marittima e potenza continentale: da questo punto di vista, il concetto di infrastruttura critica rappresentava un salto di consapevolezza, portando sotto l’ombrello della vigilanza strategica i network di approvvigionamento e distribuzione, comunicazione e trasporto, investimento e ricerca, ovvero quelle arterie vitali per lo sviluppo e il benessere della nazione, la cui sospensione o distruzione avrebbe conseguenze drammatiche per i processi sociali primari.
 
Dal Libro Bianco del presidente Clinton del maggio 1998 ad oggi, passando per la crisi terroristica del 2001, sono diverse le grandi nazioni (Francia, Gran Bretagna, Germania, Paesi Bassi, Spagna, Canada) che hanno adottato una strategia di protezione delle infrastrutture critiche da rischi di vario tipo (“all hazard”), dagli attentati ai disastri naturali agli incidenti occasionali di servizio. Al di là delle tecnicalità dei diversi sistemi di sorveglianza e risposta, prioritaria è, in ogni caso, la categorizzazione dei settori destinatari di una tutela specifica e superiore rispetto al resto dell’economia: una scelta eminentemente politica. Così come politico è il disegno della governance del sistema, cioè l’attribuzione delle responsabilità istituzionali ultime.
Due aspetti che, a valle di una rapida analisi, sollevano alcune questioni sostantive fondamentali, che potremmo dire di “politologia delle infrastrutture”.
Partiamo dalla scelta dei criteri settoriali. Essa ha prodotto, in tutte le esperienze citate, risultati abbastanza omogenei.
In tutti gli elenchi ritroviamo infatti banche, finanza, energia, acqua, trasporti, comunicazioni e pubblica amministrazione. E in molti casi sono state inserite le industrie della difesa, la chimica e l’agroalimentare.
 
In Italia non vi è stata ancora un’analoga designazione delle infrastrutture critiche (se si fa eccezione per quelle informatiche, individuate con decreto ministeriale nel 2008), ma il dibattito che accompagnerà questo processo probabilmente consentirà di riannodare i fili ripetutamente strappati di una politica industriale-strategica, che per esempio negli anni Ottanta si proponeva di pilotare l’accentramento delle risorse finanziarie in grandi “poli” tematici. Riproporre questo sforzo, utilizzando come leva la cornice legislativa della Critical infrastructure protection (Cip) è un’opportunità per ricostruire la mappa della nostra economia con un’ottica di lungo periodo, a partire da settori che – adottando la lista usata in Germania ed escludendo il complesso della difesa – rappresentano all’incirca un terzo delle grandezze fondamentali del sistema-Italia (prodotto, valore aggiunto, investimenti e capitale). Si potrebbe definire infrastruttura critica tutto ciò che realizza il proprio valore attraverso la proiezione sul mercato internazionale, e includervi servizi industriali fondamentali (logistica ed impiantistica, ad esempio) e la meccanica avanzata. Il Dipartimento della sicurezza nazionale Usa ha designato come manifatture critiche nove segmenti produttivi metallurgici ed elettromeccanici legati al mercato componentistico militare.
 
E poi vi è la dimensione geopolitica delle infrastrutture critiche e qui, almeno a livello Ue, un’opportunità è stata colta a pieno dall’Italia. Si parla di piccole cifre ancora, ma i 13 milioni di euro di finanziamenti europei concessi a progetti guidati da organizzazioni italiane rappresentano il 46% dell’erogato 2007–2009 nell’ambito del Programma europeo per la protezione delle infrastrutture critiche. È un primo importante elemento di riflessione: nelle nuove correlazioni Ue in cui siamo immersi, possiamo portare una consapevolezza storica specifica, quella di una “terra di frontiera” tra vari bacini (Mediterraneo, Europa centrale, Balcani) che deve farli stare insieme e investire nella loro interconnessione per la propria sicurezza; in un certo senso, per la propria sopravvivenza di fronte a divisioni profonde – tra est ed ovest, tra nord e sud, tra “core euro” ed “euro periferia”.
Guardando invece all’aspetto decisionale, va sottolineato il superamento, anche nell’esperienza italiana, degli approcci vagamente assembleari, tipici delle prime formulazioni americane, in cui l’obbligo della cooperazione tra attori pubblici e privati sembrava dettato dalla preoccupazione per la diffusione non intenzionale di informazioni commerciali riservate e conseguente danno per le imprese coinvolte.
Da tutto ciò che precede, si può ipotizzare che il principale rischio collegato all’attivazione di politiche Cip è che nasca una contrapposizione con un ampio partito, variamente ispirato ad idealità liberali radicalizzate, contrario a qualsiasi organizzazione dall’alto degli spazi economici. È certamente condivisibile l’esaltazione del paradigma decentrato del mondo comunicativo-interattivo, ma è ideologica la pretesa che questo modello debba essere esteso ai mercati industriali tradizionali (si pensi alla polemica sull’energia decentrata e sull’autoconsumo di massa) pena la caduta nelle grinfie di un nuovo “dispotismo orientale” – questa volta non più fondato sul controllo delle vie d’acqua, come era nell’ipotesi di Wittfogel, ma sulle reti e infrastrutture critiche. Vi sono diversi segnali che questa linea di divisione socioeconomica e culturale tra fautori del decentramento e dell’accentramento delle risorse economiche strategiche stia assumendo un certo rilievo, almeno nel mondo occidentale.


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