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140 miliardi in 10 anni, ecco quanto ci costa non investire

Era un problema economico. Lo era dieci anni fa. Lo quantifica oggi il ministro Tria.
“La fuga dei cervelli all’estero che sta conoscendo l’Italia ci fa perdere circa 14 miliardi di euro all’anno”, ha detto parlando alla Business school della Luiss, davanti agli imprenditori, proprio lì dove un decennio fa sedeva un direttore generale che esortava anche il figlio, in una lettera, ad andare via dal Paese. Insomma 140 miliardi.
Avete spronato qualcosa come l’1% del Pil ad andare altrove. Complimenti.

Ma non con la lettera, piuttosto così, come ci raccontano i sindacalisti del settore università e ricerca della Cgil.
“Dal 2010 ad oggi solo il 9% di coloro i quali hanno intrapreso il percorso lavorativo accademico hanno avuto la possibilità di essere assunti a tempo indeterminato. Il restante 91% è emigrato all’estero e oggi occupa posizioni di rilievo che portano valore aggiunto all’apparato produttivo e ai saperi dei Paesi che hanno dato loro un’opportunità. Una parte di loro, minima, ha ripiegato in altri settori della pubblica amministrazione o del privato ed altri, troppi, sono ancora alla ricerca di un lavoro stabile, anche ad un’età tutt’altro che giovane.
I cervelli italiani sono immersi in un coacervo di regole concorsuali spesso gestite in maniera feudale oppure ristrette a pochissimi numeri poiché lo Stato non garantisce adeguate risorse.
Eppure da anni dottorandi, assegnisti, borsisti, collaboratori, ricercatori a tempo determinato contribuiscono con le loro ricerche a punte di avanzamento dei processi culturali e con scoperte innovative in tutti i campi, dalla chimica all’area medica.
Si confrontano costantemente in missioni all’estero con i colleghi d’Europa e del Mondo e raffrontano tristemente lo stato di riconoscimento professionale che i Paesi d’appartenenza riservano loro.

14 miliardi di euro di perdita all’anno rappresentano il 37% dell’ammontare dell’ultima legge di bilancio 2018”. Così FLC CGIL chiede 1,5 miliardi di euro, ne rappresenterebbero lo 0,4%.

E all’Università di Modena – Reggio Emilia è stata aperta una via di ricerca che fa grandi passi in avanti per la cura dell’Alzheimer. I cervelli ancora rimasti nel nostro Paese, fautori della scoperta, hanno tutti da anni contratti a termine senza diritti e senza tutele.

Poi moltiplicate questo per tanti altri settori. Beni culturali, museali, archeologici, stampa ed editoria, persino medicina visto che non sono stati finanziati a sufficienza i percorsi degli specializzandi.

Rendiamo facile questo bel Paese. Più libero. Lasciamolo respirare. È legato, pesante, lento, e ora persino triste. Bloccato. Vivere in Italia non può essere frustrante. Non è un Paese con più ieri che domani, no, non lo è, non può sentire la stanchezza e gli acciacchi del suo popolo, perchè qui ne sono passati tanti, e a volte siamo schiacciati da policy che tendono a un equilibrio tra la conservazione e la sopravvivenza.
Invece serve progettare, creare, cambiare e invertire per esempio non mi dispiacerebbe affatto se un giorno dei cittadini del centro nord andassero a lavorare al centro sud, come succede ora solo in una direzione; pensate un gestore di Rimini, in Sicilia.

Un incentivo a una emigrazione interna ribaltata, ma sì, la proverei questa mossa.

Adriano Olivetti, con le idee di città dell’uomo (e delle donne, e dei bambini), nell’area flegrea, nella via del sud, quando decise di aprire una fabbrica di macchine calcolatrici a Pozzuoli, forse venne visto come un folle. A volte serve prima una comunità con cui condividere il peso e il sogno, per questo penso che farebbe bene a tutti mescolare, anche gli italiani, e ovviamente attrarne di nuovi. Non si tratta di sradicare le radici. Ma di ridistribuire punti di forza lungo lo stivale, e le isole. Ci sentivamo provinciali e abbiamo eliminato le province. Intanto 5’114’046 italiani residenti all’estero, e letteralmente scappano da un paese che offre loro poco, anzi pochissimo, a tutti ormai. Solo il 62,8% dei laureati italiani dopo tre anni ha un lavoro.

La transizione studio lavoro è uno dei nodi principali del Paese. Oltre cinque punti percentuali in più rispetto alla media europea. Oltre il doppio se si guarda alla Germania. La Finlandia è al 3,8% e ha avuto comunque la crisi Nokia, noi al 13,4.

Quel Paese in cui un basso livello di competenze possedute si accompagna a una debole domanda da parte delle imprese.
Anche leggendo la Strategia per le competenze dell’Ocse, troviamo: “Per migliorare, l’Italia, dovrà investire sia sull’offerta sia sulla domanda di competenze”.


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