L’impressione è che, contrariamente a quello che vanno affermando i rappresentanti delle due forze politiche, Pd e Cinque Stelle siano alla fine disposti a qualsiasi accordo o pastrocchio pur di allontanare lo spettro del voto. Lasciando stare la coerenza, che ormai non è più di questo mondo, meno che meno di quello politico, è comunque una strana palingenesi per due forze che hanno avuto nel rapporto con il popolo la loro radice storica, l’una, e il loro dna costitutivo, l’altra e più giovane.
Fra tanta democrazia di massa e iperdemocrazia diretta via web, piddini e pentastellati propendono in questo momento per arroccarsi nel Palazzo e non misurare il consenso nelle urne. Chi ha colto la contraddizione, ed è sceso negli ultimi giorni in campo per una nuova battaglia dopo tante combattute nella sua lunga vita, è stato niente meno che un vecchio comunista lucido, appassionato, schietto, onesto: Emanuele Macaluso. L’unico disinteressato in un agone ove il gioco degli interessi particolari degli attori in campo è così spregiudicato da poter convertirsi da un momento all’altro nel suo contrario.
Di Macaluso questo articolo vuole essere un elogio, personale è umano prima ancora che politico. E un segno di riconoscenza da parte di chi, pur non condividendo quasi mai le sue idee e la sua stessa concezione della politica, ha da lui tanto appreso ed ha ricevuto totale libertà per poter scrivere, da liberale, ciò che voleva prima sulla sua rivista (ove mi aveva affidato persino una rubrica fissa mensile) e poi sul Riformista nel periodo in cui ne fu direttore (arrivando a farmi firmare anche gli articoli di fondo).
Ripeto: è ben strano che un liberale elogi un comunista, ma credo sia giusto farlo: sia per sottolineare la capacità che quel partito ebbe, e che lo storico deve riconoscergli, di formare e selezionare la sua classe dirigente (da semplice perito industriale mai laureato e autodidatta Macaluso era diventato uno degli intellettuali più influenti del partito, arrivando a dirigere L’Unita); sia la profonda frattura antropologica e culturale, che Macaluso però per affetto ha cercato sempre di esorcizzare, che è avvenuta quando i vecchi comunisti hanno ceduto il posto a qualcosa di molto diverso: la “sinistra”, spesso ipocrita e moralistica (una sorta di rivincita postuma dell’azionismo). Ciò che mi ha sempre colpito in Macaluso è stato il realismo politico, l’analisi della politica senza infingimenti e retoriche; e nel contempo la spietata schiettezza che lo porta a dire le cose in modo diretto, senza tatticismi o opportunismi. Nonché la curiosità intellettuale, che resta del tutto immutata anche oggi a novantacinque anni.
Entrai in contatto con lui alla fine degli anni Novanta contestando certe tesi espresse sulla sua rivista da un suo amico di sempre, Napoleone Colajanni, sul liberalsocialismo di Rosselli: non solo dette spazio alle mie critiche sulla sua rivista, ma mi chiese di diventarne anche collaboratore. Amico di una vita anche di Giorgio Napolitano (una vera e propria “aristocrazia rossa”!), è a lui completamente diverso: tanto felpato e “ambiguo”, e controllato nei modi e nelle parole, l’ex presidente della Repubblica, tanto diretto e pungente, sanguigno e passionale, il nostro. Il quale, in questi giorni, proprio non ha digerito il voltafaccia con il quale il Pd, pur di non andare al voto, ha intrapreso le trattative con la forza di maggioranza di un governo caduto di cui fino a ieri aveva criticato aspramente tutte le iniziative. E lo ha fatto non argomentazioni moralistiche, ma ideali e realistiche insieme.
Egli ha messo il dito nella piaga, con un j’accuse pesante e senza sconti al partito di Matteo Renzi (che ha definito egli stesso un simbolo del “populismo”) e di Nicola Zingaretti. Dopo aver specificato che “la manovra politica e parlamentare non può prevalere o essere un surrogato del consenso”, ha osservato che il legittimo desiderio di governare ha finito a sinistra per diventare in questi anni l’unico fine. Si sono così troncati i rapporti con la società: non se ne sono più saputi ascoltare gli umori né rappresentare i bisogni. Da qui la paura di ascoltarla. Una forza di sinistra non deve invece avere paura del popolo. È nella società, non nei corridoi di partito che i suoi dirigenti dovrebbero operare. Il Pd non è fuori ma “dentro la crisi, ammalato di governismo”. Caro Emanuele, in verità temo che la crisi sia strutturale e non congiunturale e che la sinistra mai più tornerà ad essere quello che tu, in rispetto alle passioni di una vita, credi che debba essere. Il mondo è cambiato davvero, e i nuovi rapporti di potere si delineano lungo nuove faglie che forse nemmeno ben vediamo. Fa niente. Le tue idee e il tuo modo di essere ci servono ancora. E anche un liberale non può che apprezzare la tua onestà intellettuale.