Il XXII capitolo del Principe è il primo che Machiavelli dedica ai consiglieri e ha per titolo De his quos a secretis principes habent (De’ secretari ch’e’ principi hanno presso di loro). Comincia così: “Non è di poca importanza a uno principe la elezione de’ ministri, e’ quali sono buoni o no, secondo la prudenza del principe. E la prima coniettura che si fa del cervello d’uno signore è vedere li uomini che lui ha d’intorno”.
Con la litote iniziale, Machiavelli sembra voler attenuare la rilevanza del tema. Ma nella frase successiva, assume un tono perentorio e specifica che la prima idea che ci si fa di un leader politico si ricava dal giudizio degli uomini che lo circondano. Insomma, dimmi con chi vai e ti dirò chi sei. Quella che Machiavelli sta cercando di delineare nel suo trattatello è una considerazione qualificante del profilo del principe di successo. Non a caso, il primo errore, cronologicamente parlando, che secondo lui un leader può commettere è quello di una selezione approssimativa e sbagliata degli uomini e delle donne del suo inner circle (“El primo errore che fa, lo fa in questa elezione”). Oltretutto, è un passo falso che genera una serie di complesse conseguenze.
Per Machiavelli il fatto di avere buoni o cattivi consiglieri dipende dalla “prudenza” del principe. La prudenza è una sorta d’intelligenza contestuale: non una facoltà di comprensione astratta, quanto una capacità di conoscenza puntuale delle situazioni e dei fenomeni politici. Da questa sua particolare attitudine dipende la scelta degli uomini di staff. Come si può intuire, è un tema che tocca da vicino la delicata questione del consenso, anche se Machiavelli nel Principe non usa mai questo termine. In ogni caso, suggerisce il segretario fiorentino, avere buoni consiglieri soccorre il principe nello scopo di suscitare simpatia e approvazione.
Insomma, solo poche righe, eppure già ricaviamo una serie d’indicazioni interessanti sulla situazione tipica del consigliere politico, che è poi quella di chi soggiorna nell’anticamera del potere ed è strumento di accesso al leader da parte del mondo esterno. In generale, infatti, l’accesso non si rivela mai diretto. Anche nei rari casi in cui lo diventa, è mediato da qualcuno e avvolto da un fascino assai discreto. Talvolta è governato da donne e uomini chiamati segretari, coloro a cui, ci suggerisce l’etimologia, si confidano cose “segrete”, riservate per l’appunto.
Alistair McAlpine, che fu tesoriere e fundraiser dei Tory e consigliere tra i più stretti di Margaret Thatcher, ha scritto anni fa un libello, The Servant, nel quale, richiamandosi esplicitamente al Principe machiavelliano e provando ad aggiornarne tematiche e ambientazioni, analizza vari aspetti della sua esperienza professionale vissuta accanto alla Lady di ferro. A proposito dell’accesso, McAlpine scrive: “Il vero potere è il potere dell’accesso: è difficile influenzare un principe che non si può vedere, oppure si può vedere soltanto in un momento sbagliato”.
Per quanto mi riguarda, ho avuto occasione di confrontarmi con numerosi bracci destri che hanno accompagnato leader italiani a Palazzo Chigi. Claudio Velardi, uomo ombra di Massimo D’Alema prima a Botteghe Oscure, tra il 1994 e il 1998, poi a Palazzo Chigi tra la fine del 1998 e la primavera del 2000, mi ha raccontato un episodio che spiega bene il senso politico della gestione dell’accesso. A tutti i segretari del Pci-Pds-Ds veniva affidata una stanza al secondo piano di Botteghe Oscure, all’estremità orientale del corridoio.
Per accedervi, il segretario del partito o chi doveva incontrarlo aveva a disposizione un ascensore al piano terra che fermava solo al secondo piano, nella metà orientale del corridoio. C’era però un altro ascensore, che copriva tutti i sei piani del palazzo e fermava nelle loro metà occidentali. Grazie a questo ascensore di servizio, chiunque poteva raggiungere l’ufficio del segretario, percorrendo il lungo corridoio del suo piano da ovest a est. Per gestire l’accesso al leader, Velardi decise di piazzare alcune ingombranti fioriere in mezzo al corridoio. Oltre le fioriere, restavano soltanto gli uffici di diretta collaborazione del leader, tra cui, naturalmente, quello di Velardi. Chiunque voleva vedere il segretario si trovava costretto a farsi annunciare e accedere dall’altro ascensore. Nella rigorosa ritualità dei modi e delle usanze di quel partito, la scelta di Velardi fu presa male da non pochi eminenti dirigenti.
Chiunque aspiri a conquistarsi l’ingresso nella stanza dei bottoni deve passare per l’anticamera del potere. È una stringente necessità logistica. Nell’economia degli spazi abitati dal leader e dai suoi collaboratori, è quasi impossibile da scavalcare fisicamente. È assai complicato, si sa, accedere senza mediazioni all’ufficio di chi conta. Chi si approssima a un leader deve sapere che l’interlocuzione con i suoi consiglieri è inevitabile. A maggior ragione se il leader ricopre alte posizioni di potere. Anzi, in genere più alta è, più stringente sarà questo vincolo.
In altre parole, è più facile entrare in contatto con il presidente di una commissione parlamentare che con un ministro o con un capo di governo. Chiunque voglia beffarsi dei consiglieri, non si rende conto dell’autorità che essi hanno quali uniche sentinelle del corridoio verso l’ufficio del potente. Scrive ancora McAlpine: “L’accesso può essere usato in due modi: per permettere a un uomo di sottoporre un piano al principe, o per impedirgli di farlo… l’accesso può essere usato per distruggere o per promuovere”.
Il potere dell’accesso ha una sua applicazione estensiva nel potere di gestire l’agenda del leader. Il che equivale ad amministrare il bene più pregiato che un capo ha a disposizione: il suo tempo. Più il leader è importante, più il potere di accesso e di agenda divengono facoltà fondamentali nella dinamica politica, e più è forte il filtro verso il mondo esterno. La quantità di questioni che tiene occupato un leader è tale da essere incomprensibile per chi non abbia mai ricoperto ruoli di staff a determinati livelli. È una specie di muraglia cinese che separa il leader da chiunque voglia avvicinarlo per sottoporgli una faccenda particolare.
Non ci si sofferma mai abbastanza sul fatto che la leadership si esercita per delega e i primi delegati di un leader sono proprio i suoi consiglieri: snobba un consigliere, mettitelo contro e puoi stare certo che farà di tutto per screditarti o diminuirti all’orecchio del leader. D’altronde è il leader stesso che, scegliendolo e conferendogli il potere di gestire l’accesso, trasferisce un pezzo della sua autorità al consigliere. Solo questo genere di autorità, indiretta e trasferita, è in possesso degli uomini di staff. Altra cosa è l’autorevolezza che potranno guadagnarsi facendo bene il loro lavoro.
Se chi cerca di avvicinarsi a un capo politico dovrebbe sempre rispettare la funzione dell’anticamera del potere e il ruolo dei consiglieri che la presidiano, anche il leader, da par suo, deve conoscere e rispettare il funzionamento della macchina che lo circonda. Non può avere, eccezion fatta per la stretta sfera familiare, alcuna ambizione di gestire in via diretta ed esclusiva le sue relazioni. Come accennato, la pianta dei palazzi governativi di tutto il mondo prevede sempre che, davanti all’ufficio del leader, ce ne siano altri con specifica funzione di filtro e di accesso. In fondo, i primi verso i quali un capo deve saper esercitare funzione di guida sono proprio i collaboratori. Sono loro il suo biglietto da visita, come scrive benissimo Machiavelli nel passo sopra ricordato del Principe la prima impressione di un leader è condizionata dalla qualità politica, intellettuale e umana dei suoi consiglieri.
Difficilmente un leader di valore si lascia presentare o rappresentare da collaboratori incapaci. E raramente un buon consigliere si trattiene a lungo accanto a un leader mediocre. Il grado di consapevolezza che un consigliere matura del possesso del potere d’accesso è direttamente proporzionale alla sua abilità nel saperne fare buon uso. A beneficio del leader, s’intende.