Il lavoro di cura domestico non trova cittadinanza politica. La parola “casalinga” è scomparsa dal lessico ordinario: odora forse di piccolo mondo antico, di madri con il fazzoletto annodato in testa, di “tinelli” circonfusi di ragù della domenica che dopo il pranzo diventano odori letali, di rammendi al calzino.
L’ultima citazione cinematografica diretta che mi viene in mente sono le “casalingue” di Paolo Villaggio in “Fantozzi va in pensione” e non si trattava decisamente di signore impegnate sul piano del lavoro di cura famigliare. C’è stato un tempo in cui fu in auge una sorta di sindacalismo di categoria, con più di una sigla in attività di esercizio. Ne rammento almeno un paio: il Moica e la Federcasalinghe. Con quest’ultima sigla riuscì ad entrare in parlamento una certa signora Gasbarrini, dell’orientamento ideologico non fermissimo. Tempo andato.
Oggi una spessa patina di oblio si è stesa sull’argomento. Solo due anni fa l’Istat pubblicò un rapporto sincero pure nel titolo: “le casalinghe in Italia”, in cui venivano raccontate cose molto interessanti. Innanzitutto i numeri, eloquenti più di ogni ragionamento teorico. Il 23% delle donne italiane che hanno superato i 15 anni di età svolge un lavoro di cura in famiglia, pari, grosso modo, a 7 milioni e 380 mila. La provenienza territoriale delle casalinghe è nettamente centro-meridionale (63,8%), mentre le donne occupate fuori casa vivono prevalentente nel Centro-Nord (76,8%). La condizione economica non è affatto florida: il 10% circa (700 mila) vive in una condizione di povertà assoluta, e anche quelle che sono più lontane dall’indigenza, provengono prevalentemente da famiglie monoreddito. Impressionante è il carico di lavoro che grava su chi opera entro le mura domestiche: 71 miliardi e 353 milioni di ore, in grandissima misura “ a gratis”, spese per accudire bambini ed anziani, cucinare, pulire, stirare, e chi più ne ha più ne metta perché il limite è solo la fantasia.
In media, ogni anno ogni casalinga svolge 2.539 ore di lavoro (non retribuito), contro le 1.507 delle donne occupate e le 826 degli impiegati uomini.
Potremmo continuare con le cifre, scoprendo, per esempio, che il numero complessivo delle donne impegnate nel lavoro di cura famigliare non retribuito è diminuito nell’ultimo decennio, che cresce il numero delle laureate, che questo enorme carico di lavoro supplisce ad una molteplicità di inadempienze del sistema di welfare statale, dall’asilo al cronicario, passando per mense, doposcuola, eccetera, che il costo economico che viene risparmiato dalle donne alla collettività è di miliardi di euro, eccetera.
La domanda è una sola: nella stagione dei redditi di cittadinanza ai giovani nessuno, ma proprio nessuno ha da dire qualcosa di senso su questo spreco silenzioso di solidarietà che si consuma ogni giorno davanti agli occhi di tutti? O forse le casalinghe sono argomento démodé, che non corre veloce come dovrebbe nelle strategie degli analisti del web?