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Perché tassare il contante non è liberale. Il commento di Ocone

Si potrebbe parafrasare il Voltaire che diceva che è meglio un delinquente a piede libero che un innocente in galera e dire, a nostra volta, che è meglio un evasore che la fa franca che accettare un sistema che ci costringe ad essere tutti meno liberi. Perché questo è il senso, a me sembra, della proposta che ogni tanto riaffiora, ma che ora forse giungerà a realizzazione, di tassare il contante e in linea tendenziale di abolirlo del tutto proprio per combattere quello che viene visto come un endemico vizio italiano: l’evasione (o elusione) fiscale.

Il provvedimento ha questa volta buona possibilità di andare in porto non solo perché sembra essere stato preso a cuore dal nuovo governo, che ha l’impellente necessità di contenere l’aumento del debito pubblico, ma anche in virtù del fatto che esso corrisponde a due elementi portanti dell’ideologia delle forze di maggioranza: da una parte, il giustizialismo dei Cinque Stelle; dall’altra, lo statalismo redistributivo di certa sinistra. Nel primo caso, occorrerebbe dire che uno stato inquisitorio, che ribalta l’onere della prova (tu devi dimostrarmi di essere innocente e non io devo dimostrare che tu sei colpevole), è quanto di più lontano possa concepirsi dallo Stato di diritto e dal liberalismo.

Per quanto concerne invece le idee di una parte della sinistra, occorre sottolineare che essa vede la ricchezza come qualcosa che, anche quando non è stata accumulata in modo losco, è comunque frutto di una estorsione nei confronti della società: in quanto tale, essa va perciò restituita e redistribuita attraverso la mediazione dello Stato che effettua il prelievo fiscale. Ora, fermo restando che il sistema fiscale italiano è iniquo e inefficiente, chi scrive non può non ammettere che, finché esistono, le tasse vanno pagate fino all’ultimo centesimo. Posso anche comprendere chi usa l’evasione per fini difensivi (penso a certi imprenditori soprattutto settentrionali), ma una cosa è capire e un’altra giustificare un comportamento che è comunque illegale. Le leggi che riteniamo ingiuste si cambiano, ma finché esistono si rispettano senza se e senza ma.

Detto questo, a me sembra evidente che dare allo Stato il potere di controllare l’uso, anche lecito, che facciamo del nostro denaro, è un sostanziale vulnus alla nostra libertà individuale e un ulteriore passo verso quel Grande Fratello che, in linea di principio, potrebbe domani essere usato per controllare e disciplinare ogni aspetto delle nostre vite. Se la legge passasse, non solo ne soffrirebbe probabilmente l’agilità finanziaria con cui procediamo negli scambi (e quindi la stessa economia), ma quello che comunque è un frutto del nostro lavoro e della nostra intraprendenza, il denaro, diventerebbe di fatto un po’ meno nostro.

I nostri soldi saranno anche un po’ di chi li custodisce, cioè le banche (che si avvantaggerebbero anche perché nessuno potrebbe mai più correre agli sportelli per convertire in denaro i propri titoli in caso di crisi finanziaria) e di chi in ultima istanza ne controlla l’uso attraverso la completa tracciabilità (lo Stato padrone). E pensare che un padre del liberalismo come John Locke considerava la proprietà delle cose, e quindi anche e soprattutto di quel particolare oggetto che si può convertire in ogni altro, cioè il denaro, come una estensione della nostra stessa personalità fisica oltre che morale!

In conclusione, come non osservare che, al fondo anche di questa proposta, fa capolino la solita idea che i comportamenti scorretti si combattano non in primo luogo con l’educazione, bensì con la repressione e con il controllo?


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