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Equilibri marittimi e ambizioni cinesi. Il peso di Hong Kong (in subbuglio)

Di Romeo Orlandi

L’intensità e la violenza delle manifestazioni di Hong Kong dimostrano ormai alcune peculiarità che un primo esame, e il confronto con precedenti proteste, aveva trascurato. La prima considerazione è quasi banale nella sua evidenza: la legge contro l’estradizione ha scoperto un vaso di Pandora. L’antagonismo tra Hong Kong e la Cina affonda in radici storiche e culturali.

La possibilità di estradare cittadini della regione a statuto speciale in Cina intimorisce anche il mondo degli affari, non soltanto chi teme un restringimento delle libertà personali, e ha catalizzato un risentimento pronto a esplodere. La protesta è ora talmente estesa da non appartenere soltanto ai giovani. Il numero dei partecipanti rileva determinazione e coraggio, che può sconfinare nella possibile manipolazione di altri Paesi interessati all’instabilità della Cina. I filmati di ragazzi che devastano stazioni e aeroporti, e rimangono sostanzialmente impuniti, lascia perplessi anche gli osservatori che guardano con simpatia le loro rivendicazioni. I recenti incontri con diplomatici statunitensi e l’auspicio che Trump prenda una posizione a favore dei dimostranti di Hong Kong dimostrano la confusione che regna nella piazza.

La protesta è dovuta da diverse ragioni; la principale è il timore di perdere la propria diversità. Le clausole sancite dall’accordo sino-inglese al momento della restituzione della città a Pechino garantivano le differenze all’interno della formula One country, two systems. Un solo Paese, la Cina indivisibile e sovrana, insieme a sistemi politici che restavano diversi, garantendo all’isola per 50 anni un sistema politico indipendente. Fino al 2047 Pechino si occuperà soltanto di difesa e politica estera. Le proteste iniziarono quando la Cina interpretò le procedure per il controllo con una disinvoltura lamentata come non democratica dalla popolazione.

Esistono inoltre dei risentimenti culturali. Hong Kong appartiene alla sfera cantonese, la cui maggioranza risiede in Cina ma lontano dal rigido mondo di Pechino. Ne teme l’imposizione di standard vita, e di vigilanza, che non gradisce. Probabilmente la contraddizione più grande risiede nell’identità. Uno studio recente della University of Hong Kong ha rilevato che la grande maggioranza degli intervistati nell’isola si considera cittadino di Hong Kong, prima ancora che cinese.

Pechino guarda ovviamente con timore la situazione. Sta entrando in crisi l’impostazione tipica di non occuparsi direttamente dell’ex colonia, lasciando il controllo alle autorità locali, riducendo progressivamente la specificità di Hong Kong per costruire lungo la costa meridionale, da Shanghai a Shenzhen, città che possano prenderne il testimone, banalizzandone il ritorno alla Cina tra 28 anni.

Un arco di tempo troppo lungo per le ambizioni cinesi legate alla Belt and road initiative (Bri), la nuova via della seta. Pechino cerca di incassare con essa i dividendi derivati da uno straordinario successo. La delega che la politica aveva concesso all’economia di rendere il Paese potente, affrancandolo dal sottosviluppo, è stata ben utilizzata. La relativa indifferenza alla politica internazionale è sostituita dalla ricerca di nuovi assetti che sanciscono la potenza cinese.

Il percorso terrestre si pone come un tragitto di sviluppo che non soltanto trasporterà merci ma faciliterà il progresso dell’intera Eurasia. Pechino tenta di dare un carattere alla globalizzazione che protegga i suoi interessi nel solco della libertà dei commerci e di protezione degli scambi e che tenda a un messaggio di pace sostanziato da questi.La volontà della Cina di confermare questi parametri o di affidarli alla sola declinazione economica e alla retorica della diplomazia suscita molti interrogativi tra gli analisti.

Il versante marittimo della Bri è ancora più controverso. Il percorso dalle coste cinesi all’Oceano indiano tocca punti delicati dell’equilibrio strategico e minaccia la pax americana che si è affermata dalla fine della Seconda guerra mondiale. La Cina rivendica infatti spazi marittimi che sposterebbero il suo confine a migliaia di chilometri dalle coste, mettendo in pericolo la sovranità dei Paesi del sud-est asiatico e del sub-continente indiano.

Nella definizione di nuovi assetti, Hong Kong svolge un ruolo nevralgico che non può essere disatteso. La posizione geografica, il porto, la piazza finanziaria e la vocazione mercantilista sono dotazioni che non si costruiscono in breve tempo. La Cina non può ora trascurarli per le rivendicazioni dei manifestanti, dopo aver cercato di trarre vantaggio dall’unicità di Hong Kong.

Ora la protesta ha messo in crisi questo approccio, per la sua persistenza e per l’incapacità delle autorità locali a contenerla. È molto probabile che non si ripeterà un intervento come quello di Tienanmen di 30 anni fa. Le circostanze sono diverse, ma certamente l’instabilità non sarà tollerata a lungo; significherebbe infatti che il governo di Pechino sia debole, un’ipotesi che appare difficile da considerare.

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