Ieri mattina i giornali radio che hanno accompagnato il mio risveglio raccontavano di un uomo che sparava e uccideva una donna. Confesso che non ho mai molto amato l’espressione “femminicidio” che sembra una torsione lessicale che omaggia la moda delle parole di genere e, chiudendo il gesto dell’uccidere nella gabbia idiomatica, in qualche modo sembra rispondere all’esigenza di rassicurare con una catalogazione riconoscibile. Peraltro, a scorrere le statistiche dell’Istat, si scopre che i 350/400 omicidi consumati ogni anno nel nostro Paese appaiono distribuiti tra i generi all’incirca così: 0,40 omicidi ogni centomila con vittime di sesso femminile e il doppio (0,79 ogni 100.000) che hanno per vittime maschi.
La mano omicida in prevalenza è maschile. Nè va trascurato che, complessivamente, l’Italia sarebbe tra i paesi europei meno a rischio di ammazzatine, con 0,7 omicidi ogni 100.000 abitanti, considerato che il tasso medio dell’Ue è di 1/100.000 mentre paesi come la pacifica Lettonia ne fanno registrare addirittura 5,6/100.000.
Dunque il fenomeno dell’omicidio che ha per vittime le donne si inquadra in questo contesto, sicuramente insopportabile, perche anche una sola vittima non è sopportabile, ma dai contorni meno sfocati. Cionondimeno ci sono 123 femmine uccise su 357 omicidi totali (dati Istat 2017), e la mano omicida è nell’80% dei casi una persona conosciuta, mentre per le vittime di sesso maschile le percentuale scende al 25% circa: questo restituisce la specificità dell’omicidio perpetrato nei confronti delle donne.
La galleria degli orrori e delle malevole pulsioni che spingono al gesto assassino è nota e raccontata da schiere di analisti persino nei talk show e nel web. Meno attenzione, però, viene posta all’analisi dell’attività svolta dall’autore dell’omicidio. Sappiamo che è marito, compagno, fidanzato, convivente o stalker respinto dall’oggetto del desiderio. Presumiamo che questo respingimento produca un crollo di una già traballante autostima che fa scoppiare il cortocircuito nella mente dell’assassino.
Ma c’è un fatto che accumuna parecchi omicidi ma non viene rilevato a dovere nelle statistiche: ognuno degli assassini si trova ad avere un rapporto ravvicinato con armi da fuoco, strumento privilegiato per eseguire l’eliminazione della donna e che consente, anche psicologicamente, di prendere le distanze dal sangue e dal corpo (cosa che, invece, l’arma da taglio non consentirebbe). Spesso si tratta di una pistola d’ordinanza nelle mani di persone che svolgono attività nei settori dell’ordine pubblico o della vigilanza privata.
Meno frequentemente, ma c’è anche questo,sono privati che detengono regolarmente la pistola o il fucile con tanto di porto d’armi e rinnovo in cartabollata. Ora sorge spontanea la domanda: ma un esame periodico svolto da psichiatri indipendenti non si può fare a queste persone che entrano in possesso di armi letali e che pergiunta dovrebbero provvedere alla sicurezza pubblica e privata? Persino nei film americani i poliziotti di New York fanno le verifiche dallo psicologo e quando sta per saltargli il tic gli tolgono la pistola. Piccolissimo addendum ai programmi di governo: qualche volta, oltre la giusta e corale indignazione, anche un occhio alle fragilità del sistema non farebbe male.