Lo stop all’export militare non fermerà l’avanzata di Erdogan in Siria. Servono misure condivise con gli Stati Uniti, da inserire in un quadro più ampio che tenga conto anche dell’obiettivo della Russia nel lungo periodo: sganciare la Turchia dall’Occidente. Parola di Alessandro Marrone, responsabile del programma Difesa dell’Istituto affari internazionali, che Formiche.net ha sentito dopo la chiusura del vertice europeo odierno tra i ministri degli Esteri. Dal Consiglio in Lussemburgo è arrivata la condanna unanime alla Turchia, nonché l’invito a “cessare l’azione unilaterale nel nord est della Siria e a ritirare le truppe”. Scartata invece l’ipotesi dell’embargo Ue sulla vendita di armi, sostituita dall’impegno di ciascun Paese a muoversi in tal senso attraverso le normative nazionali che, ha spiegato Luigi Di Maio, consentirebbero di accelerare le misure di pressione ad Ankara rispetto a un meccanismo comunitario. L’Italia, ha detto il capo della Farnesina, si muoverà “nelle prossime ore” con un apposito decreto ministeriale.
Dal Consiglio Affari esteri dell’Ue, con la soddisfazione del ministro Di Maio, sono arrivate la condanna alla Turchia e l’impegno comune a fermare l’export di armi, lasciando però la sua attuazione ai singoli Stati. È una misura che la convince?
Occorre partire da un presupposto: la Turchia è un grande importatore di sistemi d’arma poiché, da sola, non è in grado di provvedere alle esigenze delle proprie Forze armate, nonostante gli ampi sforzi dell’industria nazionale. Oltre metà dell’import della difesa viene dagli Stati Uniti; il resto prevalentemente dall’Europa con, novità piuttosto recente, la fornitura dalla Russia dell’S-400 che preoccupa Usa e Nato. Detto questo, è chiaro che eventuali misure nel campo del mercato della difesa funzionano solo se concordate nel dettaglio tra tutti i principali fornitori. Serve dunque un accordo quadro nell’Unione europea che comprenda anche la Gran Bretagna (che è ancora uno Stato membro), e serve una convergenza con gli Stati Uniti, sebbene appaia piuttosto difficile negoziare con l’amministrazione Trump. Poi, bisognerà accordarsi sulle caratteristiche e sulle gradazioni delle misure.
Ci spieghi meglio.
Ad esempio, ci si può poi limitare ai sistemi che potrebbero essere utilizzati per l’offensiva sul fronte siriano, oppure estendere le misure a tutto il comparto difesa. In ogni caso, la prudenza è fondamentale, considerando che fino ad ora gli Stati hanno indicato misure diverse tra loro, tra l’altro alcune rivolte al futuro e altre al presente.
Sarà possibile trovare un accordo nell’Ue?
Sicuramente sarà necessario. Per ora, a una prima lettura delle conclusioni del Consiglio di oggi, mi sembra che ci siano riferimenti piuttosto vaghi. Si richiama una posizione del 2008 sul controllo degli armamenti, posizione che però e già sempre applicata. Non c’è nulla di nuovo nel richiamare una linea-guida stabilita undici anni fa e a cui tutti i Paesi hanno aderito con le rispettive autorità. In sintesi, manca una nuova linea-guida, e ciò può anche essere comprensibile data la rapidità degli eventi degli ultimi giorni e la complessità del dossier.
Nel caso in cui tutti gli Stati europei bloccassero l’export di armi, ciò basterebbe per fermare la Turchia?
Ne dubito. Misure del genere nel mercato della difesa hanno un impatto veramente marginale nel breve periodo. Pianificando le operazioni, la Turchia si è assicurata di avere tutti i mezzi e gli equipaggiamenti necessari per l’avanzata in Siria. L’impatto dal punto di vista operativo è dunque nullo. Da quello politico, appare limitato.
Cosa servirebbe dunque?
Servirebbero misure più incisive a 360 gradi che comprendessero anche il fronte monetario e finanziario in una condizione già di fragilità per la lira turca. C’è però un altro elemento da tenere in considerazione. La Turchia è un membro della Nato, e diversi Paesi alleati schierano nel suo territorio mezzi per la protezione da minacce aeree, in risposta al principio di difesa collettiva che l’Alleanza applica a tutto tondo, dal confine con la Russia al Mediterraneo. Al momento sono in Turchia anche assetti europei, in particolare francesi e italiani, con il nostro Paese che schiera una batteria missilistica Samp/T. Nel momento in cui si ragiona su esportazioni militari, non si può non considerare il dispiegamento di tali equipaggiamenti. È difficile sostenere una linea in cui diciamo: “non esportiamo più, ma ti difendiamo con i nostri sistemi”.
Dovremmo farli rientrare?
Non si tratta di guardare al dispiegamento dell’assetto per rimuoverlo automaticamente, ma di metterlo sul piatto di un negoziato politico e strategico. Bisogna far capire alla Turchia che la vicinanza all’Occidente presenta benefici in termini economici, finanziari e di difesa e sicurezza, ma anche che questi possono essere rimossi di fronte a un’offensiva in Siria che viola il diritto internazionale, destabilizza la regione e provoca una situazione drammatica sul campo. Le sanzioni economiche o relative al mercato della difesa non sono misure fine a se stesse, ma uno strumento di politica estera teso al raggiungimento di un obiettivo. Vanno gestite e valutate puntualmente per verificare eventuali aumenti, sospensioni, inasprimenti o alleggerimenti. Ma questo va fatto tutti insieme. Il rischio, altrimenti, è mostrare una divisione nel campo occidentale.
Ma qual è l’obiettivo dell’Europa in questo caso?
Nell’immediato, l’obiettivo è fermare l’offensiva turca contro le regioni controllate dai curdi. Ciò risponde a motivi umanitari, alla necessità di evitare il rischio che aumenti la minaccia terroristica e all’esigenza di impedire che si inneschi una crisi in Siria con conseguente flusso di profughi verso l’Europa. Una gestione ordinata dei flussi è nell’interesse europeo, considerando quando destabilizzante per le società del Vecchio continente è stato il fenomeno incontrollato dalla Libia e dalla rotta balcanica.
E nel lungo periodo?
Nel medio-lungo periodo, l’obiettivo dell’Europa è evitare che la Turchia si allontani ancora di più dall’Occidente. Occorre evitare di offrire a Erdogan lo spauracchio di un nemico esterno come un’Unione europea che impone sanzioni sulla popolazione turca, tra l’altro in un momento in cui il potere turco non appare più monolitico, con forze emergenti che potrebbero essere più in linea con i valori occidentali. Il quadro è tuttavia complicato, e tutti questi obiettivi (di breve e di medio-lungo periodo) possono anche essere in contrasto tra loro. Per questo serve una politica di bilanciamento, all’interno della quale occorre riportare il dibattito sull’uso di eventuali sanzioni economiche o misure sul comparto della difesa.
E l’Italia che armi vende alla Turchia? Oggi Guido Crosetto ha notato via Twitter che si tratta per lo più di componenti per elicotteri.
In primo luogo, i dati vanno osservati per lo meno con riferimento agli ultimi cinque anni. Sono circolati in questi giorni numeri relativi allo scorso anno, in cui appariva che Francia e Germania hanno venduto molto poco, ma probabilmente ciò è avvenuto perché molte commesse sono state anticipate all’anno precedente o posticipate al successivo. Inoltre, è opportuno ricordare che la Turchia sta cercando da tempo di sviluppare competenze domestiche. È più interessata dunque a componenti e tecnologie che al prodotto finito, ad eccezione di S-400 e F-35 che sono così sofisticati da dover essere acquisiti per intero. In più, resta un membro della Nato, con una cooperazione che si realizza a vari livelli con gli alleati, dalla produzione alla logistica, alla manutenzione.
Ciò che significa?
Significa che il tessuto industriale turco è legato a quello europeo, e che l’economia appare fortemente integrata tra civile e militare, per un Paese che (va ricordato) è attualmente candidato a entrare nell’Ue. Certo, negli ultimi anni ha vissuto una deriva evidente tra le tendenze autoritarie di Erdogan e le ambizioni regionali, con un ricorso all’uso della forza mai visto prima. Non è comunque uno Stato terzo qualunque o poco integrato, rispetto ad altri per cui una cesura netta con l’Europa sarebbe meglio attuabile. Il quadro è molto più articolato.
Ha parlato del rischio che la Turchia si allontani ancora di più dall’Occidente. C’è lo zampino della Russia di Vladimir Putin?
La guerra in Siria è una guerra del tutti contro tutti. La Russia ha combattuto contro lo Stato islamico, e lo stesso hanno fatto Stati Uniti e curdi, muovendosi però anche contro il regime di Assad sostenuto dai russi. Tre anni fa la Turchia ha abbattuto volutamente un jet russo, e ora sta ricevendo da Mosca un sistema missilistico. È un contesto molto fluido, in cui il nemico di oggi può essere l’alleato di domani. In ogni caso, sicuramente l’obiettivo russo nel lungo periodo è la separazione della Turchia dall’Occidente. Ciò consente infatti di indebolire la Nato, facendole perdere un bastione di contenimento a sud. Mosca avrebbe inoltre maggiore campo libero nel Mediterraneo.
La vendita dell’S-400 sembra confermare queste intenzioni.
Sì, anche perché è un sistema che cozza proprio con l’F-35. Il sistema russo è disegnato anche per abbattere velivoli come il caccia di quinta generazione, e quest’ultimo è stato progettato anche per superare e neutralizzare sistemi come l’S-400. Poiché sono sviluppati da potenze in tensione tra loro, non si possono avere entrambi in dotazione: se la Turchia lo facesse, ad esempio le tecnologie S-400 cercherebbero le vulnerabilità degli F-35. La fornitura alla Turchia è dunque un fatto reale oltre che simbolico, poiché così di certo non potrà restare nell’F-35. Nell’ottica russa, ciò rappresenta un ottimo risultato.
In definitiva, il quadro sembra complesso.
Molto complesso. D’altronde, la Siria per Mosca non è tanto importante in sé, ma perché è strumentale al dialogo con l’Iran, funzionale a sganciare la Turchia dall’Occidente, e utile per proporsi a tutto il mondo slavo-cristiano come baluardo contro il fondamentalismo islamico. Inoltre, con un ruolo forte la Russia diventa più rilevante per Europa e Usa, acquisendo carte importanti da giocare in altri contesti, ad esempio sull’Ucraina. Tale complessità si ripercuote sui fatti degli ultimi giorni. I curdi che hanno combattuto Assad con il supporto degli Usa, sono ora aiutati dall’esercito dello stesso Assad sostenuto dai russi per evitare l’invasione turca. È il regno del paradosso. Per usare una metafora, non è l’etica del bene contro il male del Signore degli anelli, ma quella delle mille sfumature del Trono di spade. Ciò è particolarmente difficile per l’Europa, sia perché deve mettere d’accordo 28 Paesi, sia perché è l’attore che attualmente più di tutti ha nel Dna il richiamo al diritto internazionale e ai principi del bene contro il male.