Oscar Wilde scrisse nel 1895 una fortunata commedia in tre atti, “The importance of Being Earnest”, tradotta solitamente come “L’importanza di chiamarsi Ernesto”. È una gustosa commedia degli equivoci, godibilissima anche oggi, che parte dall’ambiguità della parola earnest, che vuol dire “onesto” ma che si pronuncia come Ernest, che vuol dire “Ernesto”, per dilagare in una serie ininterrotta di equivoci che hanno per protagonisti due uomini, entrambi pochissimo “earnest”.
Chissà se i due Mattei che questa sera si preparano allo show nella casa del maestro di cerimonie, il dottor Bruno Vespa, hanno visto la celebre commedia del dandy dublinese, apprezzandone lo humor che mette in berlina la cura dell’apparenza dell’alta società inglese in età vittoriana. Humor oggi del tutto svaporato, sia detto tra parentesi, e lo si capisce dando un’occhiata a a quel tale Boris Johnson che dovrebbe coltivarlo in patria.
Comunque sia Matteo S che Matteo R sembrerebbero immuni dalla contaminazione dell’ironia dandy: appaiono piuttosto inclini il primo a coltivare barzellette sozze con risatona omerica finale. Il secondo a lanciare sarcasmi toscanacci in cartavetrata,con lo slang di Panariello. E tuttavia non c’è solo il nome a farne una coppia irresistibile e a conferire importanza onomastica, come gli Ernest/earnest della commedia wildiana. C’è innanzitutto il celebrato esordio pubblico negli studi televisivi come concorrenti di quiz a premi: Matteo S con Davide Mengacci in un programma Fininvest dal titolo profetico: “Il pranzo è servito”, mentre Matteo R si esibiva in un contesto non meno profetico, “La ruota della fortuna”, con un mostro sacro della tv italiana, Mike Buongiorno.
I ragazzi hanno oggi 46-44 anni, gli avvenimenti di cui si narra risalgono a 25-24 anni fa: insomma erano passati da pochissimo dall’adolescenza all’età adulta e morivano dalla voglia (sano narcisismo trasbordato in politica) di essere amati dal pubblico. Pubblico prima ed elettori poi: dal punto di vista della diagnosi narcisistica non cambia. Diciamo che da allora ad oggi non c’è stata una soluzione di continuità nella ricerca di un protagonismo sulla scena pubblica. Fino alle apoteosi: Matteo R con la porpora di rettore magnifico di Palazzo Chigi, Matteo S con la collezione di felpe delle forze dell’ordine, indossate da inquilino inquieto del Viminale. Entrambi hanno “dato le carte” nella partita politica che li ha visti protagonisti assoluti.
Entrambi sono stati contagiati dal “morbo del Palazzo”, una specie di sindrome di Stendhal che obnubila la mente ed altera la percezione del mondo reale. Entrambi l’hanno contratta con le elezioni europee, il voto più trompe l’oeil che esista in Italia, perché ti dà la sensazione di avere in mano il consenso reale testimoniato dai voti ricevuti, mentre, in realtà, è andata a votare solo la metà. E quando arrivano gli altri elettori cambiano inesorabilmente i numeri. Ma i due Mattei sono intelligenti e non gli manca la furbizia: dov’è che hanno imparato il mestiere? In tv, il luogo della comunicazione per eccellenza. Dunque comunicano. E si fanno l’uno irriducibile avversario dell’altro.
A Matteo R conviene perché riproduce lo schema del 2014, quando si presentò agli elettori come unica vera alternativa ai 5 Stelle. A Matteo S sta bene perché il nemico scoppiettante fa il suo gioco. E poi entrambi hanno cose da dire dell’abbraccio con Giggino. Fratelli separati alla nascita. Recitazione alla Wilde. Regia di Bruno Vespa.
(Per Antonio Ricci: bella sarebbe in contemporanea una controserata col Vespone e i falsi Renzi e Salvini. Sai che risate…)