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Il populismo attrae, ma non offre risposte. Parola dell’economista Rajan

Di Matteo Vegetti

Ex capo economista del Fondo monetario internazionale, già governatore della Banca centrale indiana, nella sua ultima fatica editoriale, “Il terzo pilastro” (Bocconi Editore) Raghuram Rajan racconta ascesa, successo e caduta di sessant’anni di capitalismo. E la crisi di un senso di comunità che né l’Europa, né il mondo anglosassone sembrano riuscire ad arrestare.

Esiste una lettura psicologica in base a cui la rabbia espressa oggi dalla gente — rabbia su cui, come lei spiega nel suo ultimo libro, i politici populisti fanno leva — può essere considerata una reazione assertiva naturale da parte di quello che lei definisce il “terzo pilastro” cioè la comunità, che protesta per essere stata lasciata indietro dagli altri due pilastri, cioè Stato e mercati. È d’accordo con questa interpretazione?

Assolutamente sì. Io penso che alcuni di questi movimenti populisti siano guidati da politici con un forte spirito imprenditoriale, che stanno rispondendo a una necessità politica che esiste in questo momento. Penso però che molti di questi politici non abbiano riflettuto a fondo sulle risposte giuste da dare. Esprimono questa rabbia, fanno leva su di essa e a volte in un certo senso la alimentano, dicendo ai cittadini: “È vero, fate bene a essere infuriati; ecco, queste sono le persone con cui dovreste prendervela”. Ma in molte situazioni, non penso che le risposte che propongono siano quelle giuste.

Bloccare l’immigrazione è la soluzione giusta?

Naturalmente capisco che se si è sommersi da enormi quantità di rifugiati si voglia esercitare più controllo sul processo; ma nel lungo periodo, per un Paese che sta invecchiando, c’è bisogno di una politica sensata sull’immigrazione. Il discorso è analogo riguardo al protezionismo: un Paese che invecchia deve per forza dipendere dalla domanda estera, dato che quella interna rallenterà nel tempo. Lo vediamo con il Giappone, che è diventato così dipendente dalla domanda estera che ogni volta che il suo incremento rallenta, rallenta l’economia dell’intero Paese.

Se come Paese dipendi dalla domanda estera, è davvero saggio accentuare il protezionismo — trasformando in un certo senso, come effetto associato, l’intero pianeta in un mondo più protezionista? Io non credo che lo sia. I politici hanno giustamente capito che devono dare risposta a questa rabbia, ma non hanno trovato le risposte giuste. Dobbiamo pensare alla forma che vogliamo dare al mondo di domani, in modo che ottenga le risposte di cui ha bisogno. È questo, in realtà, il compito che dobbiamo svolgere.

Oltre a trovare queste risposte e fornirle alla popolazione, cos’altro possiamo fare per rafforzare il terzo pilastro in modo da ristabilire l’equilibrio nel sistema?

Penso che in certa misura dobbiamo andare al di là della promozione degli interessi egoistici, un approccio che il mercato ci induce ad adottare. Le comunità fanno affidamento su interazioni che non hanno nulla a che vedere con il mercato, e a mano a mano che questo si espande, diventa sempre più difficile effettuare interazioni di questo tipo nelle comunità. Occorre compiere uno sforzo speciale in questo senso.

È sufficiente?

Credo sia inoltre possibile decentralizzare più poteri e più fondi dal centro del sistema al livello locale, in modo che le persone siano davvero incentivate a partecipare. È una cosa che, sul piano politico, dovremmo chiedere con più decisione a chi governa. Anche in un Paese come l’Italia, che per tradizione e per cultura pone l’enfasi sulle comunità, sospetto che nel tempo ci sia stato uno spostamento del potere dalle comunità al livello dello Stato centrale, e da questo al livello dell’Unione europea.

Che forma può prendere questo decentramento?

Certamente potrebbe sorgere un movimento dal basso — come a Montegrano, il nome fittizio del villaggio dell’Italia meridionale citato dall’antropologo sociale Edward Banfield, un esempio che riporto nel libro. Ma potrebbe anche esserci una decentralizzazione dall’alto, sia dei poteri sia dei fondi, che renderebbe più vive e partecipi le comunità.

Passando dal livello locale e nazionale a quello europeo, alcuni cittadini hanno l’impressione che i costi che devono sostenere a causa dell’Unione Europea siano superiori ai benefici che ne ricavano. Lei pensa che valga ancora la pena di appoggiare un’Europa unita?

Come osservatore esterno, credo che un’Europa unita sia necessaria sotto due aspetti. Il primo è quello politico, e ha a che vedere con l’interrogativo di base che ha portato alla formazione dell’Unione Europea: come possiamo evitare che sorgano conflitti al suo interno — come tra Francia e Germania qualche tempo fa, ma anche più di recente? E come possiamo creare un blocco politico che sia sufficientemente grande da poter avere voce in capitolo e non essere travolto da Cina, Stati Uniti, India e così via?

Il secondo?

Il secondo aspetto è quello economico. L’Unione europea ci consente da un lato di creare un mercato comune, ma dall’altro anche di elevare i Paesi più deboli al livello di quelli più forti, associando allo sviluppo che avviene al loro interno un supporto dall’esterno. Inoltre, come ha confermato l’ultima crisi finanziaria, è inevitabile che avvengano periodicamente dei momenti di crollo in cui i Paesi hanno bisogno di supportarsi a vicenda.

Perché?

In un certo senso è per questo che è scoppiata la crisi: c’era troppa poca solidarietà perché potesse manifestarsi una terza ragion d’essere dell’Unione europea, quella che i tedeschi chiamano transfer union. A prevalere è stata invece l’ansia su tutti i versanti: nei Paesi del Sud per i bailout delle banche del Nord, nei Paesi del Nord per il supporto richiesto da quelli del Sud e così via.

Le autorità nazionali e quelle europee hanno saputo spiegare ai cittadini perché l’Europa è così utile?

Penso che l’Europa unita non sia stata “venduta” in modo convincente. E questo è avvenuto in parte perché le autorità nazionali, come si sente dire spesso, sono prontissime da un lato a prendersi il merito di tutte le conseguenze positive delle politiche dell’Unione europea sulla vita dei loro cittadini, dall’altro a darle la colpa per tutte quelle negative. Di conseguenza i cittadini non vedono mai il quadro complessivo, e non si rendono conto che ci sono dei lati positivi che compensano alcuni dei limiti imposti. Così finiscono per chiedersi perché mai questi limiti debbano esistere. In certo qual modo, c’è un difetto di base in questa struttura.

Quale?

I politici nazionali reagirebbero molto male se le autorità europee intervenissero sulla scena politica del loro Paese per spiegare ai cittadini i motivi per cui l’Europa unita è una cosa positiva per loro. Poiché le persone che hanno responsabilità a livello europeo non possono perorare la causa dell’Unione, bisogna per forza fare affidamento ai politici nazionali; questi però non sono incentivati a farlo, anzi sono incentivati a prendersi il merito dei benefici derivanti dalle politiche europee. L’Unione Europea, insomma, è una struttura priva di una funzione marketing efficace.

Come si può mantenere il giusto equilibrio fra identità europea e identità nazionale, fra centralizzazione e decentralizzazione?

Penso che un certo numero di persone effettivamente provi un senso di identità europea. Questa identità non ingloba quella nazionale, ma coesiste con essa. Credo dunque che il malcontento nei confronti dell’Europa rifletta in parte un malcontento nei confronti dei governi nazionali.È un fenomeno che traspare dalle discussioni sulla Brexit in Inghilterra. La gente non sta protestando solo perché Bruxelles ha molto potere, ma anche perché Londra ha molto potere in rapporto alle diverse regioni. Questo riflette il grado di decentralizzazione raggiunto nel Regno Unito. Margaret Thatcher era notoriamente contraria all’idea di comunità e di autorità locale, ma penso che questo approccio sia rimasto vivo nel tempo.

(La traduzione dell’opera è stata realizzata grazie al contributo del Seps – Segretariato Europeo per le Pubblicazioni Scientifiche)

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