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Muro di Berlino. I nodi ancora da sciogliere secondo Valensise

Di Michele Valensise

Non è stato un fulmine a ciel sereno. La sera del 9 novembre 1989, quando a Berlino est i varchi del Muro si aprirono sotto la spinta della folla inebriata di libertà e attratta dalle luci dell’ovest proibito per decenni, fu come se la diga avesse alla fine ceduto alla pressione incontenibile dell’acqua accumulatasi per mesi alle sue spalle. Da tempo nella Germania orientale si diffondeva la protesta contro le limitazioni insopportabili e le ingiustizie del regime, mentre i responsabili politici della Ddr sembravano non rendersi conto della forza d’urto che li stava per travolgere.

Pur se preceduta da un’incubazione di mesi, la caduta del Muro non fu certo prevista nei tempi e nei modi in cui si realizzò. Fu merito dei tedeschi e in primis di Helmut Kohl aver preso per mano la Storia e averla condotta con sicurezza e rapidità al traguardo della riunificazione della Germania. Impresa ancor più notevole se si considerano le diffidenze e i timori degli europei, da Londra a Parigi fino a Roma. La Germania poté però far leva sul favore degli Stati Uniti e sulla realistica accondiscendenza dell’Unione Sovietica di Gorbaciov, oltre che sull’entusiasmo e le speranze di tanti tedeschi increduli di fronte ai fatti.

Dopo un negoziato febbrile, affidato all’abilità e alla determinazione di Wolfgang Schäuble, la riunificazione coronò il sogno di superare le lunghe divisioni tra quanti avrebbero dovuto crescere insieme (es wächst zusammen was zusammengehört), come dichiarò con coraggio Willy Brandt riconciliando la sinistra con l’idea della Germania unita. Si modificò così l’essenza della Germania renana di Bonn e si avviò una normalizzazione anche psicologica del Paese, messo di fronte alla colossale sfida per la reintegrazione e lo sviluppo delle regioni orientali.

Trent’anni dopo, è tempo di valutare ritardi e incongruenze nell’integrazione dei nuovi Lander nel tessuto di quel che era la Germania occidentale. I nodi ancora da sciogliere all’est sono evidenti: identità, sfiducia, emigrazione, con il sentimento strisciante di essere quasi regioni di seconda categoria. Non è da sottovalutare la schietta rivisitazione in atto oggi dei possibili errori compiuti in quegli anni di trasformazioni convulse. La riunificazione proiettò comunque senza strappi la Germania verso una nuova dimensione nazionale ed europea.

Ne discese naturalmente un diverso assetto dell’intero continente con la dissoluzione dell’Urss e, a livello mondiale, con l’erronea percezione della fine della Storia, quasi che a quel punto si aprisse una pagina nuova, piatta, priva di contrasti, della dinamica internazionale. Non fu così. Se svanì il mondo bipolare, ingessato e prevedibile, retto sull’equilibrio del terrore, non scomparvero affatto tensioni e conflitti, che anzi si moltiplicarono. Presero forma la globalizzazione, con effetti contraddittori, e una dimensione multipolare delle relazioni internazionali, con protagonisti nuovi e assertivi.

Per chi aveva temuto possibili ricadute negative dell’unità tedesca, in termini di debordante peso politico ed economico della Germania ai danni dei partner europei, il rinnovato impegno di Berlino nel processo di integrazione europea fu un dato tranquillizzante, almeno in parte. Il trattato di Maastricht e la strada imboccata con decisione verso la moneta comune, con il sofferto sacrificio del marco, erano segni della volontà della Germania di continuare a seguire la linea della collaborazione europea, radicata nella Storia recente, e di evitare ogni asserita tentazione di distacco solitario dai soci Alleingang.

Questo quadro è sempre attuale. La bussola tedesca punta con precisione all’Europa. Non è solo la cancelliera Angela Merkel, vicina alla conclusione della sua lunga parabola di governo, a tracciare la rotta con forte determinazione. È l’intero sistema tedesco che mira al rafforzamento dell’edificio europeo, ben consapevole di quanto oggi sarebbe velleitario e penalizzante chiudersi in una logica esclusivamente nazionale.

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