Tempo fa mi è capitato di leggere la seguente riflessione: “Tutti parlano oggi di riforme nel Parlamento, vi sono proposte, semiproposte e accenni nebulosi di proposte. Due temi stanno più frequentemente all’ordine del giorno: modifiche nella composizione del Senato e nuovi sistemi elettorali per la Camera dei deputati. Sono inoltre toccati molti altri punti e l’ampio dibattito è spesso confuso”.
La dichiarazione non spicca per particolare originalità; ci segnala due dei problemi che l’attualità giornalistica e politica ci stanno riproponendo in questi giorni. C’è solo un piccolo dettaglio che rende l’affermazione meritevole di essere ricordata. La frase non è stata scritta nelle ultime settimane, e nemmeno negli ultimi anni. E nemmeno negli ultimi decenni. Queste considerazioni si leggono in uno scritto di Meuccio Ruini, già presidente della Commissione dei 75 in Assemblea costituente, pubblicato nel 1962.
Non si tratta dunque di gratuito disfattismo, di ingeneroso cinismo, se ammettiamo che l’annuncio dell’ennesima iniziativa di riforma costituzionale formulata dall’attuale presidente del Consiglio non può di per sé produrre alcuna particolare emozione. Eppure, malgrado la reiterazione dei tentativi negli ultimi trenta, anzi cinquant’anni (sic!), ci abbia più frequentemente lasciato con l’amaro in bocca e con la frustrazione di gigantesche energie sprecate, la speranza merita ancora un piccolo credito. La speranza o, meglio, la disperazione. E sì, perché al punto in cui siamo arrivati solo un cieco può far finta che non sia successo niente. La memoria dei fatti politici e storici, si sa, non è il pezzo forte del nostro Paese. Nessuno stupore, dunque, se tra qualche tempo ci si sarà dimenticati del pericolo che abbiamo appena scampato e riprenderà il coro dei difensori della “Costituzione più bella del mondo”, degli estimatori del nostro sistema parlamentare, dei sostenitori della tesi che qualche piccolo ritocco sarebbe in grado di assicurare la soluzione di tutti i nostri problemi.
Il prepotente sentimento della negazione, un meccanismo tipico della psicologia dei traumi, cercherà di farci dimenticare che nelle scorse settimane abbiamo sfiorato la paralisi politica, che siamo stati due mesi senza riuscire a fare un governo, che abbiamo bruciato vari candidati alla presidenza della Repubblica, per un meccanismo elettivo che premia i franchi tiratori e consente alle convulsioni interne ai partiti di scaricarsi sulle istituzioni senza che nessuno sia chiamato a rispondere.
Ci farà dimenticare che la rielezione del presidente Napolitano è stata una via d’uscita disperata, non ovviamente per la persona che è stata eletta, ma perché, fin dall’inizio quella era l’unica soluzione che tutti, a cominciare dall’interessato, ritenevano non percorribile. È questo forse il principale motivo per il quale, pur in presenza di una dichiarata volontà di avviare le riforme, un gruppo di cittadini ha ritenuto necessario promuovere, comunque, una campagna per presentare un progetto di legge di iniziativa popolare finalizzato all’introduzione nel nostro ordinamento del presidenzialismo alla francese, di una legge elettorale a doppio turno di collegio, la fine del bicameralismo e la riduzione del numero dei parlamentari direttamente eletti.
Si è molto discusso in questi anni di quale fosse la migliore riforma per l’Italia, ovviamente per non farne alla fine nessuna. A noi sembra che quella presidenziale sia la più vicina al processo di evoluzione subìto dal nostro sistema in via di fatto. Da un lato per l’evidente ragione che ormai la presidenza della Repubblica, soprattutto alla luce delle vicende che hanno portato alla rielezione di Napolitano, rappresenta il centro propulsore di quel poco di funzionalità che ancora residua nei nostri fragili meccanismi di governo. Dall’altro perché l’alternativa ideale a questa soluzione, il premierato, cioè il rafforzamento della posi-zione dell’esecutivo e del premier, necessita, come dimostra il modello inglese, di un sistema di partiti solido e trainante, capace di aprirsi alla società e di selezionare risposte che non servano solo a rafforzare la chiusura oligarchica del sistema.
Purtroppo, dopo venti anni, dobbiamo constatare che usare come leva del cambiamento la forma-partito è una pia illusione. E che dunque dei soli partiti non ci si può più fidare. Abbandonata la speranza di una stabilità fondata su di essi, si deve scommettere su una stabilità fondata sul presidente della Repubblica eletto e dunque direttamente responsabile davanti al corpo elettorale del buon funzionamento del sistema. Un presidente costituzionale circondato da contrappesi, ma pur sempre capace di agire e disincagliare il sistema là dove, come ormai da numerosi decenni accade, non sia in grado di disincagliarsi da solo.
L’alternativa, una volta che Napolitano avrà concluso il proprio mandato, è che ritornino i fantasmi dell’impotenza e che il capo dello Stato sia scelto da qualche banda di franchi tiratori che colpiscono nell’ombra. Non credo nessun italiano possa preferire questa soluzione. E a chi ci accusa di volere l’uomo solo al comando, rispondiamo con le stesse parole, ormai famose, che Calamandrei usò per propugnare la propria proposta presidenzialista in Assemblea costituente: “A chi dice che la Repubblica presidenziale presenta il pericolo delle dittature, ricorda che in Italia si è veduta sorgere una dittatura non da un regime a tipo presidenziale, ma da un regime a tipo parlamentare, anzi parlamentaristico, in cui si era verificato proprio il fenomeno della pluralità dei partiti e della impossibilità di avere un governo appoggiato ad una maggioranza solida che gli permettesse di governare. […] Le dittature sorgono non dai governi che governano e che durano, ma dalla impossibilità di governare dei governi democratici”.
Giovanni Guzzetta è docente di Istituzioni di diritto pubblico presso l’Università di Roma Tor Vergata e promotore della campagna “Eleggiamoci il Presidente”