Il 9 novembre 1989, cioè giusto trenta anni fa, le frontiere fra le due Germanie, quella dell’Est comunista e nell’orbita sovietica e quella dell’Ovest democratico-liberale e inserita nell’Alleanza Atlantica, furono riaperte. Quel fatto viene comunemente definito “la caduta del Muro di Berlino”, ove la “caduta” è da intendersi sia in senso reale, poiché un insieme di fortificazioni erano state costruite a partire dal 1961 per evitare che i cittadini dell’Est fuggissero verso Ovest, sia in senso metaforico.
In quel torno di tempo, a cavallo fra gli anni Ottanta e i Novanta del secolo scorso, era tutto il sistema costruito intorno all’idea di comunismo, e che aveva il suo perno nell’Unione Sovietica, che collassava spinto da forze interne più che dall’azione di contrasto esterno che pure, sotto la spinta delle politiche di Ronald Reagan e dell’azione spirituale e in lato senso politica di papa Giovanni Paolo II, si era negli ultimi tempi intensificata. Implodeva un sistema che era economico, politico, sociale, culturale.
E sembrava rimanerne in piedi uno solo, l’altro, quello occidentale. C’è chi parlò, fraintendendo un po’ in verità il senso del titolo di un libro di successo di un politologo statunitense di origine giapponese, Francis Fukuyama, di “fine della storia”: il liberalismo non aveva alternative perché rappresentava in qualche modo il fine, ormai raggiunto, a cui da sempre aveva aspirato la società umana. Che non fosse così, la storia nei trent’anni successivi lo ha mostrato ampiamente. Ma che così non potesse essere, in verità, lo intuirono alcuni anche allora, a cominciare da Norberto Bobbio che sottolineò come la vittoria del liberalismo non risolveva ma anzi rendeva più palesi certe ingiustizie che vivevano in suo seno.
Il discorso, in verità, andava forse affrontato in maniera ancora più radicale: il liberalismo non “vinse” allora perché non “vince” mai, non può mai “vincere”. Se vincesse si contraddirebbe proprio nella sua essenza, cioè come ideale che vive non in una ferma datità ma come lotta eterna col “negativo”che si porta dietro come un’ombra ineliminabile. Da questa prospettiva, non stupiscono perciò le nuove sfide alla libertà emerse negli ultimi tempi, e che spesso sembrano assumere aspetti paradossali.
Oggi il maggior nemico del liberalismo è infatti, mio avviso, proprio quello che la vulgata chiama e definisce tale, cioè quell’insieme di pratiche e idee che in nome di una “correttezza” astratta si sforzano di tutelare le “differenze” all’interno di un discorso che si presume liberale. La vera differenza è invece quella che nasce continuamente all’interno del gioco dialettico fra la libertà e il suo contrario. È l’unidirezionalità del discorso e delle pratiche ciò che nuoce al liberalismo. E verso questo direzione un Occidente non più conscio di sé semnra a volte muoversi.
Come il sistema sovietico implose per una spinta interna, così potrebbe succedere a noi di perire per questo male endemico. Abbattere il muro di ciò che chiamiamo, con molta approssimazione, politically correct è forse ancora meno facile per chi in quei muri, protetti da una sulfurea retorica, trova sicurezza o riparo. Il rischio della reazione scomposta, ed uguale e contraria, è sempre dietro l’angolo, ma non è dubbio che in modi sbagliati i “populismi” e i “sovranismi” di questi anni segnalano un problema reale. La contraddizione è che l’Occidente dovrà continuare a cercare la libertà per sé e per gli altri, ma nel farlo dovrà abbattere muri che ai più non sembreranno tali. Più che una “vittoria” l’Ottantanove va visto come un momento della battaglia, e un esempio di come sulla menzogna in politica non si costruisce nulla di duraturo.